Il Delirio dell'Arcobaleno

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    Capitolo 3.

    La presenza di Brett Johnstone nel paddock era irritante. Le sue visite già abbastanza frequenti, dato che la Delirium Company sponsorizzava vari piloti della Silver League e della Iron League, si erano intensificate.
    Era stato presente a Sepang fin dalla prima giornata di test, per poi partire per Baltimora per andare a occuparsi dei propri affari nei pochi giorni di stop, tornando alla vigilia del gran premio: dalle informazioni che Grace era riuscita a raccogliere, sembrava seriamente intenzionato a proporre la propria collaborazione al team Corujas Blancas - “collaborazione”, strano modo per definire un’ingente quantità di milioni di dollari che avrebbe garantito al team di sopravvivere senza troppi problemi - e non faceva altro che menzionare Dalia Maria Herrera Ramirez, della quale si era perfino sforzato di apprendere il nome completo. Non doveva essere stato facile per lui ricordarsi il suo nome, dato che le scarse conoscenze in termine di automobilismo gli permettevano a stento di distinguere un pilota da un attaccapanni. Era ovviamente una metafora pessima, ma era opera di Koji e in quanto tale meritava di essere ricordata per tutto il resto della storia dell’umanità.
    Nonostante ciò, Koji sembrava in realtà apprezzare il magnate statunitense, essendo costui l’unica persona al mondo che, in sua presenza, aveva elogiato con una serie di giri di parole le performance dei piloti giapponesi.
    «Questo» aveva concluso Yoshimoto, che aveva l’abitudine di scherzare spesso sulla pessima reputazione dei suoi connazionali, «La dice lunga a proposito delle sue conoscenze.»
    Tornando a Dalia, Mitchell l’aveva tartassata di telefonate, negli ultimi tempi, e si era lamentato che da due settimane lei cercasse di evitarlo, con lo scopo evidente di sfuggire all’imprenditore di Baltimora.
    Non doveva essere molto difficile portare a termine quell’intento con un discreto margine di successo, dato che la Herrera abitava dall’altra parte del mondo. Nelle prime ore del mattino del primo giorno di prove libere del gran premio della Malesia, però, c’era stato un colpo di scena, in quanto Dalia Herrera aveva finalmente fatto il proprio ingresso trionfale nel paddock di Sepang, attesa dal fratello, ma non da Brett Johnstone che, da come gironzolava avanti e indietro come senza uno scopo apparente, pareva ignorare del tutto la notizia del suo arrivo.
    “Chissà se sarà in grado di riconoscerla.”
    Grace ne dubitava.
    Agli occhi del presidente della Delirium Company Ltd., Dalia doveva sembrare una donna come tutte le altre. Soltanto indossando tuta e casco, forse, non sarebbe passata inosservata, anche se c’era il serio e concreto pericolo che Johnstone la scambiasse per un Koji Yoshimoto qualsiasi, nonostante il taglio occidentale degli occhi e il fatto che la tuta si rigonfiasse in corrispondenza del seno.
    “O magari crederà che Dalia sia un attaccapanni.”
    Purtroppo Koji sembrava essersi dimenticato della metafora declamata da lui stesso. Quando come al solito si distrasse quei pochi minuti utili per scambiare con Grace le poche parole di rito, poco prima di prepararsi per scendere in pista, parlò ovviamente della Herrera, ma non lo fece in tono poetico.
    Si limitò a chiedere: «Sai per caso perché Dalia è qui a Sepang?»
    Grace puntualizzò: «Era già risaputo che sarebbe venuta.»
    «Pensavo che arrivasse sabato per qualifiche, o quantomeno non prima di domani» replicò Koji, «Non mi aspettavo certo di trovarla qui già stamattina.»
    Grace lo guardò negli occhi.
    «È qui per Johnstone.»
    «Oh, interessante» ribatté Koji. «Per caso Mister Delirium vuole ingaggiarla come testimonial per la sua nuova linea di detersivi per pavimenti?»
    «Ne dubito fortemente. Dalia non mi sembra la persona più adatta per pubblicizzare un prodotto del genere.»
    «Tu dici? In effetti non ce la vedo nemmeno io a lavare i pavimenti. Peccato, però, perché sarebbe stato bello uno spot trasmesso in mondovisione in cui Dalia scende dalla vettura e si mette a pulire la pit-lane con ancora la tuta indosso.»
    «La pit-lane è asfaltata, non è di marmo. Non è un po’ difficile pulirla con il detersivo per pavimenti?»
    «Forse sì, ma una pubblicità non deve fermarsi davanti a difficoltà di questo livello. Sono facilmente arginabili.»
    Grace azzardò: «Per caso, mentre gareggiavi nella Nippon Series, hai trovato il tempo per prendere una laurea in marketing?»
    «Certo che no. Non che non apprezzassi la cultura, ma considerando tutte le botte in testa che ho preso in carriera non sono sicuro che sarei riuscito a concentrarmi sullo studio.»
    «Allora vai a cambiarti e a fare il tuo lavoro, invece di volere fare quello degli altri. Non credo che saresti portato.»
    «No, non sarei portato» ammise Koji, evidentemente a malincuore. «Va beh, approfondiremo la questione più tardi.»
    Grace lo guardò aggrottando le sopracciglia.
    «Quale questione?»
    «Quella del detersivo per pavimenti.»
    Grace sbuffò.
    «Sai dove puoi mettertelo, quel maledetto detersivo?»
    Koji ridacchiò.
    «Non sono sicuro di volerlo sapere.»
    Finalmente le voltò le spalle e si allontanò, al che Grace fece un sospiro di sollievo.
    La sensazione di pace, purtroppo, non durò molto a lungo: stavolta non c’erano più piloti che si avvicinavano per le loro rituali chiacchiere pre-prove libere, dato che Mister Delirium in persona si stava avvicinando.
    Doveva avere più o meno cinquant’anni e, dallo stile casual ma curato, sembrava più un uomo di medio rango che un imprenditore multimilionario. Non era facile inquadrarlo e, al di là dell’aiuto fornito dalla risaputa certezza che non capisse un fico secco di automobilismo, Grace aveva serie difficoltà a comprendere quale fosse l’approccio migliore, nei suoi confronti.
    Johnstone sorrideva, in quel momento, e l’addetta stampa non sapeva se fosse un bene e un male. La ragione del sorriso del magnate era l’avere non del tutto casualmente posato gli occhi sulla sua scollatura. In passato Grace l’avrebbe considerato il male assoluto, ma con il passare del tempo si era resa conto che gli uomini che fissavano scollature nei momenti in cui avrebbero dovuto occuparsi di questioni serie non erano pericolosi.
    Pericolosi no, ma irritanti sì: Grace rimpiangeva già la presenza di Koji Yoshimoto, nel momento in cui Mister Delirium le fece un cenno di saluto.
    Ormai era a pochi passi di distanza, quindi Grace non indugiò ulteriormente e borbottò un “buongiorno” piuttosto sforzato..
    «Buongiorno a lei» fu la replica di Johnstone. «È una bella giornata oggi, non le pare?»
    «Sì, è una bella giornata» confermò Grace, «Anche se non le garantisco che lo rimanga molto a lungo. Per oggi pomeriggio sono previsti temporali.»
    «Il pomeriggio è ancora lontano.»
    «Già» convenne Grace, con un sospiro.
    Perché la gente doveva perdere tempo a fare osservazioni così ovvie? Era un aspetto che le appariva quasi tollerabile, ma solo da parte di chi non era abituato a vivere al millesimo di secondo... e in effetti Mister Delirium non corrispondeva a quella descrizione.
    «Ci voleva una bella giornata per fare risaltare il bell’aspetto di una donna come lei» fu la successiva inutile osservazione di Johnstone. «Ora, però, spero che mi potrà scusare se lascio da parte i convenevoli...»
    “Sì, certo” si disse Grace. “In realtà è proprio quello che desidero.”
    Il magnate dei prodotti per la casa e per la persona si guardò intorno, come ad accertarsi di non avere nessuno intorno.
    «Mi è giunta voce che la signora Herrera Ramirez sarà qui presente oggi.»
    Grace annuì.
    «Ha sentito bene.»
    Non era certa che Johnstone dovesse già esserne informato, ma non doveva essere così terribile metterlo a conoscenza di quel dettaglio. Anzi, considerando la sua sbadataggine, forse gli avrebbe evitato di fare l’ennesima figuraccia e di farsi ridere dietro dall’intero team, i cui membri fino a quel momento si erano sempre trattenuti perché aveva tanti soldi e, se fosse divenuto il main sponsor della squadra, come pareva interessato a fare, avrebbe significato la loro incontrovertibile fortuna e la possibilità di combinare qualcosa di buono negli anni a venire.
    Il volto di Johnstone parve illuminarsi al pari dei pavimenti lavati con l’ultima linea di detersivo Delirium antibatterico immessa sul mercato.
    «È proprio un piacere. Veda di trovarmi un posto in cui io e Dalia potremmo parlare tranquillamente e di pregarla a raggiungermi appena può.»
    Grace spalancò gli occhi.
    “Per caso mi ha confusa con la sua segretaria?”
    Non disse niente.
    Ascoltò altre due o tre frasi senza né capo né coda, dopodiché assicurò al signor Johnstone che ogni suo desiderio sarebbe stato eseguito nel minore tempo possibile.
    A quel punto lo lasciò solo e si mise alla disperata ricerca di Mitchell. Era lui il capo, era lui che aveva deciso di mettersi in casa Mister Delirium, quindi era a lui che doveva spettare la responsabilità di fornirgli ciò che desiderava.

    Brett Johnstone attendeva in una stanzetta piccola, seduto a un tavolino. Parlava al cellulare, quando la donna che aveva fatto sognare Indianapolis fece la propria apparizione.
    Era tempo di chiudere la telefonata.
    «Ci sentiamo in un altro momento. Ho un affare importante di cui occuparmi.»
    «Anche il nostro è un affare importante» protestò il suo fidato collaboratore, dall’altro capo del telefono. «Non...»
    Johnstone lo interruppe: «Sono in riunione con la signora Herrera Ramirez.»
    «Oh, capisco.»
    Evidentemente il cognome “Herrera” era la parola magica necessaria a far capire che la Delirium Company era vicina a un punto di non ritorno.
    Il termine “riunione” avrebbe potuto sembrare inappropriato alla figlia adottiva di Ernesto Ramirez, ma la Herrera non lo dava a vedere. Dopotutto era sudamericana, forse non coglieva tutte le sfumature della lingua inglese.
    “Tra l’altro, secondo i britannici, non le cogliamo nemmeno noi americani.”
    Quel pensiero lo fece sorridere, ma Dalia Herrera Ramirez, che non era al corrente dei suoi deliri mentali pseudo-linguistici, probabilmente pensava che sorridesse a lei.
    “Tanto meglio.”
    Johnstone la esaminò con attenzione.
    Era molto bella e sembrava giovane per essere una donna più vicina ai quarant’anni che ai trenta. Proprio come se la ricordava, aveva la pelle olivastra e lunghi capelli castani. Indossava una canottiera scollata, jeans attillati e scarpe eleganti. Johnstone non se lo aspettava: non che pensasse di vedersela comparire davanti con la tuta di Koji Yoshimoto indosso, ma non avrebbe creduto che, vista dal vivo, avesse così poco l’aria da pilota.
    “Sarebbe perfetta in uno spot pubblicitario. Magari, quando la squadra della sua famiglia mi avrà venduto l’anima, potrei mettere il suo volto sulle bottiglie del detersivo o, perché no, addirittura sui pacchetti dei Delirium Extra Dry. Da vedere non sembra una che pulisce, ma sono certo che, come tutte le donne, i Delirium Extra Dry li abbia provati anche lei.”
    Si costrinse a non fantasticare troppo su quell’eventualità e soprattutto a non chiederle se fossero più di suo gradimento gli assorbenti esterni o i tamponi.
    Continuò a sorridere, nonostante non considerasse più importante il fatto che i britannici non condividessero le graziose sfaccettature dell’American English, sforzandosi di assumere l’aria di chi non ha la più pallida idea di che cosa siano le corse automobilistiche, dal momento che si era accorto di essere così popolare nell’ambiente proprio perché dava quell’impressione, e le fece un cenno.
    «Si sieda.»
    Dalia scostò la sedia e si accomodò di fronte a lui.
    «Finalmente ci vediamo. È inutile che mi presenti, immagino.»
    Johnstone annuì.
    «Allo stesso tempo, anch’io ne posso fare a meno.»
    «Già, lei è Mister Delirium, colui che potrebbe dare una grossa mano alla squadra. È un vero piacere che sia stato colpito dalla nostra storia vincente.»
    «Era impossibile non rimanerne colpito» replicò Johnstone, «E sono certo che il team tornerà presto al vertice.»
    Dalia allargò le braccia.
    «È più facile a dirsi che a farsi.»
    «Il fatto che lo si dica, però, significa che è una possibilità concreta, anche se non immediata.»
    Dalia ridacchiò.
    «Da come lo dice, sembra quasi che abbia almeno una vaga idea di che cosa sta parlando. Non era lei che, qualche mese fa, osservava che la Cinquecento Miglia di Indianapolis è una gara del tutto priva di valore, se si esclude quello prettamente storico, perché il vero automobilismo è quello in cui ci sono curve a destra e curve a sinistra?»
    «Davvero ho detto questo?»
    «Sì.» [...]
     
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    [...] «Ah, già» confermò Johnstone, che se ne ricordava perfettamente. Desideroso di mantenere immutata la propria reputazione, insisté: «Immagino che lei voglia smentirmi, vero? Dopotutto è proprio ciò che dovrei aspettarmi da chi non sa curvare a destra.»
    Invece di insultarlo, Dalia gli strizzò un occhio.
    Johnstone ne era certo, non era solo per la sua posizione: quella donna avrebbe reagito allo stesso modo anche di fronte a uno squattrinato autore della stessa affermazione.
    «Lo sa che ho vinto due titoli, nella Nippon Series? E non solo, se quell’imbecille con cui mi giocavo il campionato non mi avesse speronata all’ultimo giro dell’ultimo gran premio stagionale, ne avrei vinto anche un terzo!»
    Nonostante il forte desiderio di domandarle come mai non avesse lasciato il Giappone dopo la vittoria del primo titolo, come facevano tutti, almeno all’epoca in cui lei aveva gareggiato da quelle parti, quando il campionato giapponese era ancora ritenuto molti scalini al di sotto della Golden League, Johnstone si trattenne. Era una domanda troppo acculturata. Doveva continuare ad atteggiarsi a ignorante in materia.
    «Ho sentito vagamente parlare delle sue prodezze. A proposito, com’è la Nippon Series?»
    «Di solito i piloti curvano anche a destra, ogni tanto. Non è obbligatorio, ma quando la strada segue quel percorso è il modo migliore per non finire sull’erba o contro un muro. Se questo non le basta per convincersi che io sia in grado di girare a destra, le ricordo che bisogna farlo anche nella Emirates Series, dove ho sfiorato il titolo nel 200*.»
    Per la prima volta da quando la Herrera era entrata nella stanza, Johnstone sentì che qualcosa gli sfuggiva, e non per finzione.
    «200*?»
    «Sì, 200*.»
    «La Emirates Series esisteva già, nel 200*?»
    «Ufficialmente quello è l’“anno del flop”. Tanti proclami, poca pubblicità, poca rilevanza a livello internazionale. A fine anno hanno chiuso la baracca. Poi, dopo qualche anno di riflessione, sono tornati, più forti di prima, con tutto quello che serviva: pubblicità virale, grande presenza sui social media, dirette streaming gratuite in tutto il mondo... e anche una buona dose di esibizionismo, non lo si può negare. Ero già passata alla Indy Challenge da diversi anni, all’epoca, ciò nonostante tutti i team si scannavano per avermi. Come saprà, il campionato si svolge tra ottobre e marzo e per gran parte non si sovrappone con quello americano, quindi avevo la concreta chance di ritornare. Sono stata per tre stagioni al team Vanilla.»
    «E poi?»
    «Poi ho litigato con i titolari e mi hanno messa a piedi. A quel punto ho deciso di concentrarmi soltanto sulla Indy Challenge, con l’obiettivo di coronare il mio sogno.»
    «Ovvero?»
    «Vincere a Indianapolis.»
    «Ma non ha vinto.»
    «Già, non ho vinto» convenne Dalia, «Ma mi sento comunque a posto con me stessa: in carriera ho vinto due titoli in Giappone, ho sfiorato il titolo negli Emirati, vincendo un gran premio...»
    Johnstone la interruppe: «Solo uno?»
    «Sì, ma ho collezionato molti podi, quell’anno» puntualizzò Dalia. «Di fatto ho mancato il podio soltanto una volta. Niente male, vero?»
    «Dipende dai punti di vista» ribatté Johnstone. «Da quelle parti non danno lo champagne.»
    «Dopo un po’ ci si abitua. Tornando a noi: due titoli in Giappone, il gran premio di Dubai del 200* e, a completare l’opera, quando ho capito che curvare a destra non serviva, ho ottenuto sei vittorie negli Stati Uniti.»
    «Però, nella serie che conta, non è mai salita sul gradino più alto del podio» mise in chiaro Johnstone. «È davvero sicura che la sua sete di vittorie si sia placata?»
    Dalia aggrottò la fronte.
    «La Golden League, dice?»
    Volutamente provocatorio, Johnstone le domandò: «Qual è, secondo lei, la serie che conta?»
    La risposta della Herrera non lo stupì.
    «Stando ai numeri, la Emirates Series, temo. Lei, però, si riferisce alla Golden League, immagino. Dopo sei anni passati in Giappone, mi sono goduta le mie quattro stagioni di Golden League. Dopo ho fatto qualche comparsa, partecipando a tre edizioni del Gran Premio del Messico e a due del Gran Premio del Brasile, pace all’anima loro. Ho all’attivo quattro secondi posti e due terzi posti. Forse le sembrerà strano, ma è un curriculum di tutto rispetto, considerando che non ho mai corso per una scuderia di primissima fascia.»
    Johnstone aggiunse: «E nemmeno per quella di suo padre.»
    Dalia puntualizzò: «Non è mai stato un mio interesse.»
    «Suo fratello, però, l’ha fatto.»
    «Sì, Mitch l’ha fatto... e ha fatto bene» concluse Dalia, guardandolo negli occhi, «Dato che è stato l’ultimo che è riuscito a vincere il titolo con i nostri colori. Si è trovato nel posto giusto al momento giusto. Io, a quell’epoca, stavo tracannando acqua di rose a intervalli regolari di due o tre settimane. Non si può dire che non fossi nel posto giusto al momento giusto. Abituarsi al sapore del waard non è stato così difficile.»
    «Ciò a cui non si abituerà facilmente» la provocò Johnstone, «è l’inattività. Ha ancora tanti anni di carriera davanti. Appendere il casco al chiodo è stato il suo più grande errore.»
    In realtà la Herrera non aveva mai annunciato ufficialmente il proprio ritiro dalle competizioni. Al termine della stagione americana, pochi mesi prima, aveva dichiarato che nelle gare disputate dopo il periodo di convalescenza non si era mai sentita a proprio agio e che aveva scelto di lasciare in via definitiva la Indy Challenge, ma nessuno si era illuso che non si sarebbe lasciata tentare dalle proposte di riconciliazione del titolare del Team Vanilla.
    Dalia, infatti, fece un mezzo sorriso.
    «Chi le dice che rimarrò inattiva?»
    «L’intuito.»
    «Senza offesa, credo che il suo intuito la stia ingannando. Ho dei progetti per il futuro.»
    Era giunto il momento di uscire allo scoperto e di sbatterle in faccia la realtà.
    «Anch’io ho dei progetti per il futuro. Se lei ne facesse parte, sarebbe un bene per entrambi... sempre ammesso che non abbia davvero intenzione di ricominciare a inseguire bottiglie di acqua di rose!»

    ***

    I capelli ramati di Grace erano inzuppati d’acqua.
    Koji non poté trattenere una risata, quando le arrivò alle spalle.
    Grace sussultò.
    «Che cosa ci fai qua?»
    «La vera domanda è un’altra» ribatté Koji. «Che cosa ci facevi tu, all’esterno, nel bel mezzo del temporale?»
    Grace si voltò e lo fulminò con lo sguardo.
    «Informavo la stampa che, nonostante la tua meravigliosa idea di andare a stamparti contro il muretto uscendo dai box, eri convintissimo di riuscire a tornare in macchina prima della fine della giornata.»
    Koji sospirò.
    «Purtroppo non è accaduto.»
    «Purtroppo, invece, è accaduto che hai fatto l’ennesima cazzata, quindi...»
    Koji interruppe le lamentele sul nascere.
    «Per cortesia, Grace, non farmi la predica anche tu. Mitch è incazzato, Anders è incazzato, tutti i meccanici sono incazzati...»
    «E hanno ragione di esserlo» replicò Grace. «Oggi hai fatto un errore da dilettante.»
    Koji si sforzò di cambiare argomento.
    «Com’è andata con Dalia e Mister Delirium?»
    «Non troppo bene, temo. Dalia è già tornata in albergo da ore e, per quanto ne so, si sta dando da fare per anticipare il volo.»
    «Quindi la mia vecchia rivale non si unirà a noi il prossimo anno» ipotizzò Koji. «È un vero peccato. Averla come terzo pilota sarebbe stato un grande affare per il team.»
    Grace ridacchiò.
    «Il magico potere della gnocca.»
    «Ma quale potere della gnocca!» sbottò Koji. «Lo sai che mi piacciono solo giapponesi... o al massimo, ma proprio a sforzarmi, le coreane. Le occidentali non sono belle...» Ridacchiò. «A parte qualche rara eccezione. Anche certe australiane sono carine.»
    Grace non gli diede la soddisfazione di dimostrargli di essersi accorta che parlava proprio di lei, anche se Koji era sicuro che l’avesse intuito.
    Proseguì la narrazione degli eventi che Koji si era perso: «Mister Delirium sembrava parecchio insoddisfatto, oggi. Temo che dovrai rassegnarti: oggi non ti farà i complimenti nemmeno lui per la tua prestazione.»
    «Sì, in effetti far registrare il terzo tempo non è stato un pessimo risultato.»
    «Mi riferivo all’incidente.»
    «Dubito che Mister Delirium potrebbe farmi i complimenti per questo.»
    «Invece sono certa che, in un altro momento, potrebbe davvero farteli» obiettò Grace. «Magari è convinto che quello sia il tuo scopo.»
    «Effettivamente creare l’incidente perfetto, quello destinato ad entrare negli annali del motorsport, è un’idea che mi alletta, ma ho ancora la capacità di rendermi conto che la Golden League non è un demolition derby... anche perché è quello che il nostro capo non fa altro che ripetermi.»
    «E fa bene» confermò Grace. «Sei fortunato che Mitchell è paziente tanto quanto suo padre, se non di più, ed è convinto che tu abbia del potenziale.»
    «Chiunque è convinto che io abbia del potenziale» puntualizzò Koji, «A condizione che abbia letto la mia biografia almeno una volta. Per chi non l’ha mai letta, invece, io sono il solito maledetto sfasciacarrozze nipponico venuto a rubare il volante a qualche pilota più talentuoso, o roba del genere. Sui social network dicono questo di me.»
    Grace scosse la testa, sospirando.
    «Non mi dire che leggi ancora i social network.»
    «Tutti lo fanno.»
    «Sì, tutti lo fanno, ma nessuno li prende più sul serio. Al giorno d’oggi la gente sta sui social network per cazzeggiare, non certo per informarsi o per informare seriamente.»
    «Quindi i vari #YoshimotoSeiUnoScarso!!!!! e #ViaIGiapponesiDallaGoldenLeague non sono seri, secondo te?» scherzò Koji. «Mia cara Grace, tu non hai capito nulla della vera essenza del campionato. Hanno ragione loro, mica quelli che sostengono che, se sei sia il più giovane campione della Nippon Series sia il pilota più vincente di tutta la storia di quel campionato, forse è giusto darti un minimo di credito. Quattro titoli vinti, uno agli esordi, tre dopo il mio ritorno. Cosa sono, il nulla? Molta gente è convinta di sì.»
    «Molta gente non ti perdona il modo in cui hai vinto il tuo primo titolo» gli ricordò Grace. «Gli incidenti che determinano l’esito del campionato non sono molto popolari, specie da quando vengono demonizzati anche se si tratta di episodi avvenuti senza la minima intenzione.»
    «Avevo diciotto anni ed ero un ragazzino esuberante e desideroso di dimostrare quanto valevo» ci tenne a precisare Koji. «Era l’ultimo giro e dovevo dare il meglio di me, se volevo vincere il titolo e avere una chance di farmi notare. All’epoca la Nippon Series non era come adesso, che la conoscono tutti. Se non avessi cercato il sorpasso su Dalia, avrei perso il titolo. Mi è dispiaciuto di averla buttata fuori, ma non posso farci niente se, mentre io sono stato capace di portare la macchina al traguardo nonostante stessi perdendo pezzi, lei non ha potuto fare altrettanto. Cosa dovevo fare? Evitare di arrivare in fondo? Qualunque cosa ne pensino i miei detrattori, non sarebbe cambiato niente, dato che l’unico modo che Dalia aveva per vincere quel titolo era terminare la gara e terminarla davanti a me. Al giorno d’oggi, ripenso a com’è andata a finire, mi dico che è stato un bene: per assurdo, è quella la ragione per cui sono diventato quello che sono.»
    «Ed è anche la ragione» ribatté Grace, «Per cui dovresti essere soddisfatto di non averla come compagna di squadra la prossima stagione.»
    Koji alzò gli occhi al cielo.
    «Sei sempre la solita esagerata. Dalia mi ha perdonato molto tempo fa.»
    «Spiritualmente sì, non ho dubbi» replicò Grace, «Ma dovresti sapere meglio di me che, in pista, Dalia non perdona nessuno.»
    «Allora la aspetto» concluse Koji, con un sorriso. «Se Johnstone dovesse riuscire a riportarla nella Golden League, mi divertirei moltissimo.»
     
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    Tabagi's father

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    Il fantamercato è in pieno svolgimento!

    Comunque Koji se va avanti così farà chiudere il team a forza di riparazioni! Spero che riesca a imbroccare delle gare pulite...

    E il super sponsor sarà anche ignorante in materia ma pare sappia toccare i tasti giusti, e non parlo solo del profumo dei soldi!
     
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    Koji saprà dare il meglio di sé, prima o poi. Il problema è che al momento sembra più poi di prima. :D
    Il supersponsor più che veramente ignorante preferisce fingersi ignorante, perché ha visto che rende di più. Però sì, sembra che sappia scegliere bene gli argomenti.
     
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    Capitolo 4.

    Il weekend del Gran Premio di Abu Dhabi, terza prova della Emirates Series, era appena iniziato, ma a colpo d’occhio era evidente come le comunità virtuali si stessero già impegnando per andare off-topic.

    “Meno male che il killer argentino non è in pista.”
    “Già, per fortuna, altrimenti avrebbe fatto devastazioni anche nel deserto.”
    “Uno come lui dovrebbe essere radiato da tutte le competizioni.”
    “Magari succedesse. Va beh, dai, ci sentiamo tra un paio d’ore, dopo le prove libere. Speriamo che Dobson sfondi il culo a tutti.”
    “Quello sfasciacarrozze di Dobson?! Ah ah, sei proprio da facepalm! In ogni caso avrà anche fatto dei danni, ma è sempre meglio che Aruya.”
    “Dobson e Aruya non possono nemmeno stare all’interno della stessa frase. Dobson non rischia di uccidere qualcuno ogni volta in cui si mette al volante.”
    “Io non ne sarei così sicuro.”
    “Aruya non ha talento. È solo bello da vedere. Deve essere per quello che la piccola Harris è caduta ai suoi piedi e che adesso Aruya ha il futuro assicurato. Anch’io, se mi fossi fidanzato con la figlia di Ethan Harris, sarei arrivato così in alto.”


    Gabriel Aruya, descritto come il potenziale pilota più scarso di tutti i tempi della storia della Golden League, nonostante non avesse ancora fatto il proprio debutto né l’inizio del campionato fosse esattamente imminente, fissava il monitor del computer portatile e non riusciva a credere ai propri occhi. Era inverosimile che gli utenti dei social network fossero in grado di essere così crudeli, nei confronti di chi si era macchiato di quelle che a loro apparivano come colpe infamanti, da scrivere commenti su di lui anche quando parlavano di una serie in cui non aveva mai gareggiato e nella quale, verosimilmente, non avrebbe mai mosso nemmeno un passo, e arrivando a infangare addirittura la sua vita privata.
    Era vero, Gabriel non era privo di responsabilità e molte persone, in giro per il mondo, avevano senz’altro le loro buone ragioni per avercela con lui: soltanto due mesi prima aveva buttato fuori pista Shane Willis alla gara decisiva in Malesia, nella Silver League. Ciò che non riusciva a spiegarsi, però, era come mai l’incidente con il suo diretto avversario, invece di essere un argomento da tirare fuori soltanto durante discorsi contestualizzati, venisse citato a ogni soffio di vento, anche quando la discussione verteva su qualcosa di completamente diverso.
    “Sembra che ogni ragione sia buona per insultarmi.”
    Nemmeno lo stesso Willis se l’era presa così tanto da infamarlo pubblicamente, come sembravano fare invece la maggior parte degli appassionati di automobilismo. Tra l’altro molti di loro si limitavano a seguire la Golden League e, seppure conoscendo a malapena le dinamiche della Silver League, si prendevano il lusso di fare commenti in proposito, mentre magari proprio chi seguiva anche la Silver League preferiva tacere. Era proprio vero: il mondo funzionava al contrario.
    “Neanche ci avessi guadagnato, con quella manovra.”
    Invece di salvare la faccia facendosi portare via il titolo da Shane Willis, che forse se lo meritava più di lui, l’aveva di fatto consegnato a Caroline Parker, che a trentadue anni finalmente aveva coronato uno degli obiettivi che i campioni del futuro si ponevano quando di anni ne avevano al massimo venti.
    A peggiorare la situazione, il suo sponsor storico sembrava sul punto di mollarlo e di mandare a monte il suo futuro. Tony, il suo manager, gli aveva assicurato che avrebbe fatto di tutto per convincere il presidente della Delirium Company, uno che di competizioni automobilistiche ne capiva perfino di meno rispetto ai ragazzini senza cervello che scrivevano scemenze sui social, a non lasciarli a piedi, ma tra Tony e Brett Johnstone era quest’ultimo a disporre di maggiore potere contrattuale.
    Tra l’altro, anche in termini di automobilismo, Johnstone aveva già fatto il salto di qualità, siglando uno storico accordo come main sponsor del team Corujas Blancas, di cui probabilmente non conosceva altro se non il nome.
    Per Gabriel, ormai, non era difficile fare due più due.
    “A meno che non capiti un miracolo, il prossimo anno rimarrò a casa a commentare i gran premi sui social network.”
    Il test che avrebbe dovuto effettuare a gennaio con il team Rayo Fatal non si sarebbe concretizzato e, senza uno sponsor importante come Delirium, tutto il suo futuro sarebbe stato definitivamente in bilico.
    C’era chi lo vedeva in Giappone o negli Emirati... ma come avrebbe potuto arrivare in Giappone o negli Emirati senza uno sponsor? Inoltre addirittura i giapponesi lo vedevano come uno squilibrato che andava in giro per le piste attentando alle vite altrui, il che non doveva essere proprio positivo, specie considerando che in Giappone erano abituati ad avere a che fare con piloti non esattamente tranquilli e che perfino il loro eroe nazionale aveva vinto un titolo, da quelle parti, speronando un’avversaria verso la fine della gara decisiva.
    “Anch’io, comunque, se avessi vinto, invece di perdere il titolo, sarei stato trattato in modo diverso.”
    La storia del motorsport veniva scritta in funzione dei vincitori, era risaputo. Gabriel era certo che, se quel giorno di ottobre, dopo avere buttato fuori Shane, invece di insabbiarsi fosse riuscito a ripartire, la stessa manovra, che invece di allontanarlo dal titolo glielo avrebbe servito su un piatto d’argento, sarebbe stata considerata in modo diverso.
    Invece no, il titolo se l’era portato a casa la Parker che, con tutto il rispetto possibile, era stata brava in quella stagione, ma in circostanze normali non avrebbe potuto competere né con lui né con Willis.
    Subito dopo Caroline aveva pensato bene di approfittare dell’occasione e di procacciarsi un volante nella massima serie. Kathy Shelley, che da quando aveva appeso il casco al chiodo si era trasformata in una radical feminist del motorsport, le aveva fatto un’offerta che nessun pilota sano di mente avrebbe rifiutato, se non avesse avuto altre concrete possibilità.
    Il team ribattezzato Pink Venus Racing Team, che era semifallito quando la Shelley lo aveva rilevato due anni prima, aveva fatto più strada di quanto gli addetti ai lavori pensassero. Rimaneva sempre un team anomalo, vista la convinzione di Kathy che uomini e donne non potessero coesistere, che l’aveva condotta a riempire la squadra di donne a tutti i livelli, ma avevano fatto strada, nell’ottica dei risultati. Durante il campionato da poco concluso Marcela Lopez Ferreira aveva conquistato punti ben tre volte, mentre la sua compagna di squadra, che a fine stagione aveva abbandonato la Golden League per intraprendere una nuova carriera negli Stati Uniti, si era classificata addirittura quarta in Gara 1 a Silverstone. Al suo posto sarebbe arrivata Caroline Parker, che già faceva proclami e che, in qualità di nuova adepta della Shelley, si auspicava di divenire la migliore donna vivente della storia della Golden League.
    Il terzetto di piloti più chiacchierato della Golden League sarebbe stato completato da Irina Volkova ed era questo, più che l’estremismo della Shelley e la sua scarsa propensione ad accettare le scelte personali altrui, se tali scelte non corrispondevano ai principi che lei stessa declamava senza interruzione, a provocare a Gabriel una certa avversione per il Pink Venus Racing Team.
    Kathy Shelley era già stata criticata in lungo e in largo per l’ingaggio di tre ragazze, ma la maggior parte delle critiche non andavano a centrare il punto. Gabriel riteneva Marcela più che adatta alla Golden League: l’aveva dimostrato, negli ultimi anni, rivelandosi sempre all’altezza delle monoposto che aveva guidato. Anche Caroline, per quanto tra i piloti della Silver League non fosse la più meritevole di un volante nella Golden League, difficilmente sarebbe stata inferiore alla compagna di squadra.
    “Ma quella lumaca della Volkova che senso ha?”
    Rimanere a piedi mentre Caroline faceva il salto di qualità, per Gabriel era tollerabile.
    Rimanere a piedi mentre in Golden League c’era Irina, che Gabriel detestava profondamente perché aveva la pessima e frequentissima abitudine di sbarrare la strada a chi tentava di doppiarla, era un’idea che lo disturbava.
    “Se Kathy voleva un’altra donna, avrebbe potuto ingaggiare Dalia Herrera.”
    La ragazza - se si poteva definire tale una trentaseinne - che aveva fatto sognare il pubblico di Indianapolis prima di schiantarsi pochi metri prima del traguardo, dopo una stagione vissuta tra pochi alti e moltissimi bassi in Indy Challenge, era stata considerata da molti pronta ad appendere il casco al chiodo, ma aveva smentito tutti ritornando a vestire i colori del team Vanilla nella Emirates. Gabriel era convinto che quello fosse il primo passo per riavvicinarsi alla Golden League, dove avrebbe potuto ottenere ancora molto.
    “E non solo nella Golden League.”
    Gabriel si augurava con tutto se stesso che fosse un buon weekend, per lei. Magari, in quel caso, avrebbe avuto un po’ di tregua. I commenti si sarebbero concentrati su Dalia, lasciandolo finalmente da parte.
    La Herrera sapeva essere un’ottima catalizzatrice di attenzione. Se solo fosse stata più convincente, quando pregava i suoi fantasmi di tornarsene sull’Indianapolis Motor Speedway invece di tormentarla anche nel Golfo Persico, nessuno le avrebbe più levato gli occhi di dosso, nemmeno quelli che ancora cercavano di ignorarla, che peraltro erano molto pochi.
    Gabriel digitò l’indirizzo del sito ufficiale della Emirates, che trasmetteva le prove libere in streaming.
    Erano già iniziate e perdersi l’inizio per rimanere a leggere accuse contro di lui non era stata una buona idea.
    Quando il video si fu caricato, Gabriel guardò l’elenco dei tempi. Il cronometro parlava chiaro: fino a quel momento Dalia Herrera non si era fatta molto notare.
    Chissà, forse le cose sarebbero cambiate nel corso del weekend.

    -2gg 1h 30'
    Quello che accadeva alla fine di ogni sessione di prove libere non variava molto, da un circuito all’altro: in ogni angolo Dalia trovava flash di macchine fotografiche e giornalisti in agguato, pronti a sbarrarle la strada per implorarla di rilasciare qualche dichiarazione.
    Non poteva biasimarli: il team Vanilla sembrava avere fatto il colpo del secolo, tornando a ingaggiarla quando la sua carriera sembrava ormai definitivamente terminata. Sebbene non avesse mai annunciato definitivamente di volere chiudere una volta per tutte con le competizioni, era quello il messaggio passato in tutto il mondo dopo quel sesto posto a Fontana che, oltre a mettere definitivamente fine alla sua carriera negli Stati Uniti, le aveva anche restituito un minimo di speranza.
    Se solo la stampa avesse saputo che c’era anche qualcos’altro che bolliva in pentola, la situazione sarebbe addirittura peggiorata. Per il momento il peggio che aveva udito oscillava tra il banalissimo “pensi che recupererai la tua credibilità riuscendo a vincere una gara nel corso della stagione?” al pessimo “credi che, se il progetto di Kathy Shelley dovesse rivelarsi fallimentare, tu stessa, in quanto donna, ne risulteresti svantaggiata?”.
    I giornalisti sapevano essere seccanti, soprattutto quando non si limitavano a parlare della situazione relativa al gran premio corrente, ma dopo diciotto anni di gare internazionali, o comunque popolari a livello internazionale seppure facenti parte di serie locali, Dalia aveva imparato ad arginare il problema.
    Fece un sorriso al più vicino, un tale di mezza età che lavorava per la televisione britannica, che l’aveva puntata ed era già pronto a piazzarle un microfono davanti alla bocca.
    «Allora, Dalia, come la vedi per questo weekend?»
    «Bene.»
    «In Bahrein e a Dubai, però, hai faticato.»
    «Sì, ho faticato» convenne Dalia, memore del settimo posto rimediato sul circuito di Al Sahkir e del rovinoso ritiro avvenuto nella successiva occasione. «Questo, però, non significa che io debba faticare anche qui a Yas o tra tre settimane a Losail.»
    Il giornalista annuì, con aria soddisfatta.
    «Quindi sei più determinata che mai.»
    «Certo che lo sono.»
    «Ritorni dopo una stagione di assenza e dopo avere trascorso molto tempo negli Stati Uniti. Che differenza c’è tra l’Indy Challenge e l’Emirates Series?»
    Era una domanda seria? In tal caso meritava una risposta seria; una di quelle che avrebbe potuto fornire a Mister Delirium, per esempio.
    «Qui si gira a destra molto più spesso... oh, e nello specifico, su questo circuito, c’è anche il rischio di perdersi all’uscita dalla pitlane.»
    Il giornalista decise di stare allo scherzo.
    «Quindi, se non dovessi perderti all’uscita della pitlane, a che cosa punti? Al podio?»
    «Sì, certo» confermò Dalia. «Sulla carta, io punto sempre al podio. Purtroppo non è sempre facile come potrebbe sembrare.»
    «Ora veniamo al punto dolente. Karl Dobson ti ha molto criticata dopo l’incidente a Dubai. Secondo lui, se non te la senti più di gareggiare, faresti meglio a ritirarti. Come rispondi alle sue accuse?»
    «È meglio che non lo dica, te lo assicuro» ribatté Dalia. «Al massimo posso suggerirgli di andarsene a casa a coltivare kiwi, come penso che facciano dalle sue parti. Per il resto non ho altro da aggiungere, se non che Dobson farebbe meglio a badare a sé, ora che la fortuna sta girando dalla sua parte, invece di continuare a preoccuparsi di ciò che non lo riguarda.»
    Salutato il giornalista con un ennesimo sorriso di circostanza, Dalia si allontanò, diretta verso il motorhome del team Vanilla.
    Le era giunta voce che Brett Johnstone la stesse aspettando, ma quel rumour si rivelò inesatto: Mister Delirium aveva altri affari di cui occuparsi, quel giorno, e il suo arrivo era slittato al giorno della gara.
    Claudia osservò, non appena rimasero sole: «Non pensavo che fossi così desiderosa di vederlo. Sei proprio così ansiosa di dirgli di no per l’ennesima volta?»
    Dalia alzò le spalle, fingendo indifferenza.
    Sapeva che la sua personal trainer non l’avrebbe seguita, se avesse scelto di ritornare nella Golden League. Già da tempo era smaniosa di tornare negli Stati Uniti, quindi Dalia non le aveva ancora comunicato che, a breve, le loro strade si sarebbero separate.
    «Non è questione di ansia. Anche se non voglio gareggiare per Corujas Blancas, è pur sempre la squadra della mia famiglia. Devo difendere i miei interessi, non credi?»
    «Sì, certo» confermò Claudia, «Ma non vorrei che Johnstone ti convincesse a cambiare idea. Tu non c’entri niente con la Golden League.»
    Dalia decise di non ribattere.
    “Cosa può capirne lei?”
    Non aveva senso contraddire Claudia, da sempre convinta che la Golden League fosse una serie destinata a fallire e a chiudere, ma soprattutto convinta che sarebbero tornate negli States, dove Dalia avrebbe accettato un’offerta - un paio di team erano davvero interessati a lei, nonostante tutto - per rientrare nella Indy Challenge.

    [...]
     
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    -1gg 0h 35'
    Prendere parte alla conferenza stampa post-qualifiche era una soddisfazione che Dalia ricordava a malapena.
    Il suo terzo tempo, nella qualifica del gran premio di Abu Dhabi, l’aveva riportata a una realtà che fino a quel momento le era sembrata dimenticata.
    Anders aveva ottenuto la pole position, dimostrando che la squadra nella quale si era accasato per il campionato 20**/20** aveva fatto passi da gigante rispetto all’anno precedente e che poteva lottare per il titolo contro il Vega Emirates Team. Ciò era molto soddisfacente per Dalia, ma sembrava esserlo di meno per Karl Dobson, che nell’intervista era apparso alquanto disturbato dall’essersi dovuto accontentare della seconda posizione, attribuendo la responsabilità a chiunque non avesse concrete possibilità di controbattere. Aveva parlato a lungo di “vetture lente” che l’avevano ostacolato mentre faceva registrare quello che avrebbe dovuto essere il miglior tempo, senza però scendere nei dettagli.
    Era tipico del suo stile, Dalia non se ne sorprendeva.
    Anzi, ciò di cui era più opportuno stupirsi era che Dobson non avesse ancora fatto qualcuna delle sue stupide allusioni.
    Il momento arrivò quando, finalmente, a microfoni spenti, poté dare il meglio di sé.
    Si erano appena alzati in piedi, quando osservò: «Sei tornata a casa, alla fine.»
    Dalia lo guardò storto.
    «Cosa vuoi dire?»
    «È stato su questo circuito che hai ottenuto il tu primo podio, nel 200*. Non mi sorprende che proprio qui tu ti sia decisa a concludere qualcosa di sensato.»
    Dalia distolse lo sguardo.
    «L’ho sempre detto, per me un circuito vale un altro. Il fatto di essere salita sul podio proprio qui, quando ho lasciato la Golden League per la Emirates, è irrilevante.»
    «Non hai lasciato la Golden League» puntualizzò Karl. «Semplicemente nessuno ti ha più voluta. Del resto chi...»
    Dalia lo interruppe, al fine di ricordargli: «Ho preso parte ad altri gran premi, dopo il 200*.»
    «Sì, occasionalmente» confermò Karl, «A scopo promozionale, al volante di macchine che un pilota di un certo livello non avrebbe mai accettato di guidare.»
    «Ho ottenuto risultati apprezzabili.»
    «Non sono stati sufficienti per garantirti un ingaggio a tempo pieno.»
    Dalia tornò ad alzare gli occhi.
    «Chi ti dice che fosse quello che desideravo?»
    Sentì una mano che le si posava su una spalla.
    Subito dopo udì la voce di Anders.
    In portoghese, le domandò se tutto andasse bene.
    «Sì» confermò Dalia.
    Anders si allontanò.
    La lasciò sola.
    Karl Dobson, su cui Dalia puntava ancora lo sguardo, osservò: «Nessuno, al posto tuo, l’avrebbe desiderato. Posso capirti, se desideravi tagliare i ponti una volta per tutte con la Golden League. Posso capire anche il fatto che tu non abbia mai cercato di accaparrarti nemmeno un posto come riserva nella squadra dei tuoi genitori.»
    Dalia rabbrividì.
    Sapeva dove Karl volesse andare a parare.
    Sapeva che Karl detestava anche lei, perché non aveva fatto nulla, molti anni prima, per impedire il disastro provocato da una stupida guerra tra team di primissima fascia e team che, all’epoca, erano destinati a inseguire.
    Non era il solo a scaricare su di lei almeno parte del biasimo.
    “Se solo sapesse che anch’io mi sento colpevole come tutti gli altri.”
    Voltò le spalle al rivale.
    «Buona fortuna per la gara, Dobson.»
    «Buona fortuna anche a te» ribatté Karl. «Spero che domani ci incontreremo sul podio.»
    «Anch’io. Mi piacerebbe buttarti giù.»
    Karl accennò una risata.
    «Piacerebbe anche a me.»
    Dalia tornò a girarsi di scatto.
    «Come fai?»
    Karl Dobson la fissò, aggrottando le sopracciglia.
    «A fare cosa?»
    «A ridere e a scherzare così come se niente fosse dopo quello che hai sottinteso.»
    «Io non ho sottinteso niente» replicò Karl. «Sappiamo entrambi come funzionano le cose. La vita va avanti. Dobbiamo sforzarci di farla andare avanti, nonostante tutto. È quello che ho imparato a mie spese. È da anni che sto qui, come un esiliato, sperando di riavere la mia chance... quella che avrei potuto avere senza quella maledetta campagna mediatica secondo cui meritavo di essere definitivamente radiato, quella che avrei potuto avere senza...» Dobson si interruppe. «Lasciamo perdere. È inutile piangere sul latte versato e sui giochi di potere di tuo padre e di tutti quegli altri che non erano capaci di accettare una sconfitta, al punto di dare contro a noi e al team Phoenix su qualsiasi cosa, anche quelle che nulla avevano a che vedere con i risultati! Se la Golden League ha iniziato ad andare allo sfascio, è anche per colpa vostra.»
    «La Golden League stava già andando allo sfascio» precisò Dalia. «Se gli sponsor non investono, non c’è molto da fare per...»
    Karl Dobson non la lasciò finire.
    «Se gli sponsor non investono... Beh, certo, naturalmente ti aspetti che vengano a investire proprio nel campionato con la peggiore reputazione. Sei proprio la degna figlia di tuo padre, nonostante non sia stato lui a concepirti. Certe caratteristiche vanno oltre la genetica. O forse il tossico che tua madre si portava a letto prima di conoscere tuo padre era anche lui uno come voi. Per fortuna certe persone scelgono di danneggiare soltanto se stesse conficcandosi una siringa in un braccio, mentre c’è chi invece crea un impero e lo utilizza per generare distruzione intorno a sé.»
    Dalia sospirò.
    «Non ti pare di esagerare, adesso?»
    «Sì, forse sto esagerando» ammise Dobson, «Ma il fatto che una persona sia morta, che la mia carriera nella Golden League sia andata a puttane, che sia accaduta la stessa cosa anche a te e ad Anders e che quella che era la massima serie di automobilismo a livello mondiale oggi sia in crisi nera non ti pare una ragione sufficiente per esagerare?»
    Dalia non ebbe la forza di ribattere.
    Per quanto Karl Dobson fosse uno stronzo che la odiava, non poteva negare che, a modo suo, avesse ragione.

    -1h 35'
    Erano passate settimane dall’ultima volta in cui si erano incontrati, ma Brett Johnstone sembrava perfettamente in grado di riconoscerla, nonostante l’outfit fosse molto diverso.
    «È un piacere rivederla, Dalia.»
    Dalia fece un mezzo sorriso e non poté fare a meno di chiedersi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta in cui era riuscita a sorridere: non tanto, ma non l’aveva più fatto dopo la conversazione del giorno precedente con Karl Dobson e le sembrava che fosse già trascorsa una vita.
    «Il piacere» replicò, con fermezza, «è tutto mio.»
    Per una volta era vero, perché quel giorno avrebbe richiesto a Johnstone l’unica condizione che le premeva davvero.
    Il titolare della Delirium Company le ricordò: «Abbiamo qualcosa di piuttosto serio di cui parlare. Ha valutato la mia proposta?»
    Dalia non poté fare a meno di scoccargli un’occhiata gelida.
    «Mi rendo conto che la sua posizione privilegiata le permette di venire a raggiungermi in questo momento, ma non funziona esattamente così. Ho una gara da disputare.»
    «Già. Buona fortuna, Dalia. Io credo in lei.»
    «Mi fa piacere.»
    «Farà molto più piacere a me vederla sul podio.»
    «Prima di salirci, dovrò conquistarmelo» gli ricordò Dalia. «Non mi basta schioccare le dita per ottenere un risultato.»
    «Nemmeno a me» ribatté Johnstone. «Ambisco a tutt’altro genere di risultati, ma anch’io devo appigliarmi a tutto il mio talento per ottenere ciò che voglio... Immagino che abbia capito a che cosa mi sto riferendo.»
    «Forse sì, forse no» scherzò Dalia. «Ne riparliamo dopo la gara, va bene?»
    Johnstone alzò gli occhi al cielo.
    «Va bene.»
    La lasciò sola e, in quel momento, Dalia ebbe la certezza di potere chiedere al magnate ciò che desiderava. Aveva molto ascendente su di lui, non per quello che era, ma per ciò che simboleggiava. La voleva fortemente nel team e sarebbe stato disposto ad accettare un piccolo compromesso.

    +0h 00' 01''
    Accadde tutto in fretta.
    Le luci rosse si spensero.
    Anders partì dritto come avrebbe dovuto.
    Karl Dobson non fece altrettanto.
    Da quel poco che Dalia comprese, gli bastò un attimo per finire fuori pista.
    Dalia passò oltre, con la speranza di non ritrovarselo davanti mai più, per tutto il resto del weekend, e senza sapere che andava incontro a una delusione.

    +1h 25' 23''
    Nello specchietto, Dalia vide la sagoma di colore blu elettrico.
    Proprio come aveva fatto il suo compagno di squadra prima di lui, Karl si stava avvicinando a vista d’occhio.
    Via radio il suo ingegnere la pregava di incrementare l’andatura, per conservare almeno la terza posizione.
    «E come pensi che possa fare?» sbottò Dalia. «Le gomme sono ormai andate!»
    Anticipare la sosta era stata una pessima idea.

    +1h 34' 37''
    Dobson si era accodato e Dalia si era illusa.
    Dal box le avevano comunicato che anche i tempi del suo avversario si erano alzati e che, con tutta probabilità, anche lui era ormai in difficoltà nel gestire le gomme.
    “Invece quel bastardo stava solo aspettando il momento più opportuno per portare a termine l’attacco finale.”
    Aveva scelto l’ultima curva, superandola quasi sulla linea del traguardo: il gap, tra le loro vetture, doveva essere a ridosso del record della Emirates Series, anche se in realtà nessuno si era mai preoccupato di stilare una classifica dei distacchi che non riguardassero vincitori e secondi classificati.
    Dalia trattenne un’imprecazione.
    Non aveva senso imprecare, non le avrebbe restituito la posizione perduta.
    Inoltre, indirettamente, Karl Dobson le aveva quasi fatto un favore.

    +1h 44'
    Scovare Brett Johnstone non fu particolarmente difficile.
    Sussultò, nel vederla, e Dalia si rese conto che non si aspettava che il loro incontro fosse così imminente.
    «In questo momento» lo informò, «Dovrei andare a raccontare la mia versione dei fatti alla stampa. Ho pensato, però, che ci fossero questioni più preoccupanti di cui occuparmi.»
    Johnstone aggrottò le sopracciglia.
    «E se dopo qualcuno le chiedesse che fine aveva fatto?»
    «Vorrà dire che mi inventerò di essere stata colpita da un attacco di diarrea fulminante» ribatté Dalia. «Ero in bagno. Le va bene come versione?»
    «Non è a me che deve andare bene.»
    «Giusto, quindi non perdiamo tempo. Andiamo in un luogo tranquillo. Le ruberò solo cinque minuti... il tempo di andare in bagno, più o meno. Mi preme soprattutto mettere le mani avanti su qualcosa di piuttosto urgente.»
    «Qualcosa di che tipo, se non sono indiscreto?» Dal tono di voce, Johnstone appariva meno sicuro del solito. «Non mi può anticipare qualcosa?»
    Dalia pronunciò quel nome.
    «Gabriel Aruya.»
    Come se gli avesse chiesto una definizione, Johnstone declamò: «Pilota giovane e promettente, ma con un’elevata propensione all’errore. Probabilità di debutto imminente in Golden League: molto alte, se non fosse che rischia di perdere il proprio sponsor da un giorno all’altro.»
    «Esatto» confermò Dalia, «E mi risulta che il suo sponsor sia la Delirium Company.»
    «Per ora. Credo che la Delirium Company dovrebbe investire i propri fondi in qualcosa di più concreto di un demolitore di automobili.»
    «Quel demolitore di automobili metterà la testa a posto» replicò Dalia, aggiungendo, dopo una breve pausa: «Prima o poi.»
    Johnstone spalancò gli occhi.
    «Mi sorprende sentirglielo dire.»
    «Oh, ora ho capito» dedusse Dalia. «Si aspettava che io le dicessi che potrei prendere in considerazione l’idea di rientrare nella Golden League a condizione che Aruya ne rimanga lontano.»
    «Mi sarei stupito se avesse preso così a cuore la questione, ma non vedevo alternative.»
    «Allora venga con me in un posto in cui possiamo parlare liberamente» ribadì Dalia, «E capirà che ho in mente qualcosa di molto diverso.»

    ***

    Quando Gabriel sentì il cellulare che squillava, pensò all’inizio della fine.
    Quando vide il nome di Tony sul display, si preparò moralmente a ricevere la peggiore delle notizie e al probabile addio imminente al mondo del motorsport.
    Gabriel deglutì a fatica, prima di rispondere.
    Bastò un attimo perché l’incubo si trasformasse in un sogno.
    Le parole di Tony gli parvero lontane, ma perfettamente comprensibili.
    «È quasi fatta.»
    «Vuoi dire che...»
    «Voglio dire che ho appena finito di parlare con Brett Johnstone» confermò Tony, «E che dopo lunghe e accurate riflessioni ha capito che tu sei una figura chiave per la Delirium Company... Il che, tradotto, significa essenzialmente che sei un fesso che finisce sempre in giro per i prati, ma che per questa ragione viene inquadrato e fotografato, mettendo in mostra il suo marchio. So che non era il tuo sogno d’infanzia, ma è pur sempre qualcosa, no? Non prenderti impegni per i prossimi mesi, perché a Valencia c’è qualcuno che potrebbe essere interessato a te.»
    I sogni, tuttavia, non erano mai completamente limpidi e cristallini.
    «Come sei riuscito a fargli cambiare idea?»
    «Non è merito mio» mise in chiaro Tony. «Johnstone si è limitato a informarmi di avere preso la decisione di continuare a supportare la tua carriera e di spingere per il tuo approdo al team Rayo Fatal. Non mi ha detto come abbia preso questa decisione o chi l’abbia consigliato.»
    «In pratica» osservò Gabriel, «è come se stessimo vendendo l’anima al diavolo senza essere in grado di riconoscerlo se lo vediamo senza le corna.»
    «Sì, è più o meno così» convenne Tony, «Ma quando il prezzo è buono poco importa chi sia l’acquirente.»

    Edited by Milly Sunshine - 21/5/2016, 00:08
     
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    Molto bene, Dalia è riuscita a piazzare Gabriel e ora lui potrà prendersi una rivincita sul mondo (forse!)

    sai che a forza di andare avanti un po' mi mancano le date? Voglio dire, avevi detto che era una scelta precisa ma al di là dell'età di alcuni dei personaggi ho pochi riferimenti, il che è curioso da una parte ma anche altrettanto nebuloso per la mia sete statistica ;) Tuttavia non sono almeno per ora così importanti da determinare cambiamenti di trama, so solamente che ci sono fatti avvenuti prima o molto prima rispetto al presente narrativo.

    Se Dalia fosse stata Trulli, dopo il sorpasso di Dobson sarebbe stata licenziata! In ogni caso Karl è ancora un oggetto misterioso, non ho ancora capito se è uno che trama alle spalle oppure un tipo sincero. Spero di scoprirlo nella continuazione!
     
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    Ti ringrazio per avermi fatto notare la questione delle date. Mi hai fatto capire che è necessario, a breve, fare una breve sintesi (e per questo farò rientrare in scena l'articolista Grace Kissinger) della carriera di Dalia.

    Per ora sappiamo che:
    - Dalia ha 36 anni quando ha l'incidente a Indianapolis e pochi mesi dopo si ritira dalla serie americana;
    - quando Dalia ne aveva 16, il team di proprietà di suo padre ha ingaggiato come pilota un certo Kit Harris.

    Per quanto riguarda la carriera di Dalia sappiamo per certo che:
    - ha gareggiato per 18 anni in serie di rilievo internazionale;
    - ha gareggiato nella Nippon Series per alcuni anni (non è specificato quanti, ma almeno tre devono essere, visto che ha vinto due titoli ed è arrivata seconda in un'altra stagione)
    - è stata nella Golden League per quattro anni, più ha preso parte a cinque gran premi, tra Brasile e Messico, in altre stagioni;
    - ha partecipato a quattro campionati della Emirates Series (uno prima di andare negli States, gli altri in contemporanea).

    Ti anticipo che, per come ho programmato le cose, la carriera di Dalia (le 18 stagioni di cui sopra) si è svolta più o meno così:
    1) Silver League
    2) Nippon Series
    3) Nippon Series (titolo)
    4) Nippon Series (titolo)
    5) Nippon Series (2° posto)
    6) Golden League
    7) Golden League
    8) Golden League
    9) Golden League / Emirates Series (2° posto)
    10) GP Messico e GP Brasile in G.L. + partecipazioni random ad altre serie (inclusa Indy)
    11) GP Messico e GP Brasile in G.L. + partecipazioni random ad altre serie (Inclusa Indy)
    12) Indy Challenge + GP del Messico in G.L.
    13) Indy Challenge
    14) Indy Challenge / Emirates Series
    15) Indy Challenge / Emirates Series
    16) Indy Challenge / Emirates Series
    17) Indy Challenge
    18) Indy Challenge / Emirates Series


    Sia Gabriel sia Karl avranno il loro spazio, nei capitoli che seguiranno, chi un senso chi nell'altro.
    Avremo modo di approfondire entrambi. ^^

    Edited by Milly Sunshine - 21/5/2016, 00:11
     
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    L'aggiornamento di metà settimana arriva un po' in ritardo rispetto alla metà della settimana, però sono comunque soddisfatta. ^^




    Capitolo 5.

    Dalia non poteva negare che Grace Kissinger, nonostante scrivesse per il sito di Golden League Racing, che non era sicuramente la migliore fonte di informazione esistente, fosse professionale anche in quella sua seconda occupazione.
    L’articolo che sintetizzava la sua carriera, realizzato grazie a una lunga videochiamata, era stato pubblicato nella migliore possibile delle forme, e non doveva essere stato un lavoro facile per Grace salvare il salvabile da quella che era stata più una conversazione tra conoscenti che lavorano nello stesso settore, piuttosto che una vera intervista.
    “Inoltre, quando parlo, è un po’ un casino starmi dietro.”
    Grace sembrava non avere avuto alcun genere di problema e ciò che aveva pubblicato sul sito web si stava rivelando una piacevole lettura.

    Partiamo dagli albori della tua carriera internazionale. La tua prima stagione, in Silver League, ti ha lanciata verso il successo. Al giorno d’oggi, come vedi quell’esperienza?
    L’anno in Silver League mi ha lanciata verso il successo, è esatto. Era una scommessa, per l’esattezza una scommessa le cui probabilità di vittoria erano molto basse: non solo ogni anno molti piloti della Silver League, per quanto talentuosi, non riescono ad avere il successo sperato, ma soprattutto all’epoca la Silver League era appena agli esordi [era la seconda stagione del campionato, n.d.A.] e non c’erano molte garanzie. Inoltre avevo appena diciotto anni e, a diciotto anni, non ero particolarmente matura. Mi sorprende di non avere mai fatto nulla che mandasse a monte la mia carriera. Forse il fatto di essere terrorizzata dall’idea di dovere tornare in Sudamerica (ero abbastanza conosciuta, a livello locale, mentre a livello internazionale ero al momento piuttosto anonima) mi ha spinta a dare il meglio di me. Ho avuto la fortuna di non sentire troppa pressione: la Silver League era poco più che agli esordi.


    «La Silver League era poco più che agli esordi e...»
    Dalia si interruppe.
    «E...?» la esortò Grace.
    Dalia alzò le spalle.
    «Niente, non scrivere altro.»
    «Ma c’è dell’altro» obiettò Grace. «Ho capito benissimo che volevi aggiungere qualcosa. Puoi dirlo. Al massimo lo sistemo un po’, prima di trascriverlo.»
    Dalia scosse la testa.
    «No. Questa deve essere un’intervista sulla mia carriera, non voglio rivangare il passato. In confidenza te lo posso dire: mentre io disputavo la mia stagione in Silver League, l’attenzione era molto più focalizzata su quello che era successo al povero Harris, piuttosto che su di me, nonostante all’epoca ci fosse stato qualche accenno alla mia relazione con Ethan. Mi raccomando, non scrivere niente di tutto ciò.»
    «No, figurati» la rassicurò Grace. «Non voglio fare del gossip, soprattutto a proposito di un fatto del genere e proprio adesso che Ethan è stato ufficializzato al team Corujas Blancas.» Accennò un sorriso. «Posso dire una cosa, comunque?»
    Dalia sospirò.
    «Fai pure.»
    «Non riesco a immaginare te e Ethan Harris insieme.»
    «Avevo diciassette anni quando mi sono messa insieme a lui. A quell’età non avevo ancora le idee molto chiare.»

    Dopo la Silver League, la maggior parte dei piloti puntano alla Golden League. Tu, invece, sei “emigrata” in Giappone. Perché hai fatto questa scelta?
    Non sempre siamo noi a fare delle scelte: a volte sono le circostanze che scelgono al posto nostro.
    Durante il mio anno in Silver League le cose sono andate abbastanza bene: ho ottenuto due vittorie, mi sono ritrovata al quarto posto nella classifica generale, avrei potuto essere confermata per la stagione a venire...
    Molti piloti l’hanno fatto. Alcuni hanno atteso un anno o due in più e poi sono arrivati in Golden League. Altri sono rimasti in Silver League a marcire finché non sono stati reputati troppo vecchi. La maggior parte di loro hanno in Golden League non ci sono mai arrivati.
    Avrei potuto rimanere in Silver League con il serio rischio di non riuscire a sfondare... e l’avrei fatto, se non avessi ricevuto un’ottima offerta nella Nippon Series.
    Primo anno: ottimi risultati, mai veramente tra i primi, perché non ero in un team di prima fascia.
    Secondo anno: nuova squadra, vittoria del titolo.
    Terzo anno: stessa squadra, vittoria di un altro titolo.
    Quarto anno: stessa squadra, offerta per debuttare in Golden League l’anno seguente, titolo sfiorato, grazie alla brillante idea di Koji [Yoshimoto, n.d.A.] di buttarmi fuori quando ormai la stagione era finita.


    Dalia rise.
    «Koji è un tipo strano. In realtà è strano anche al volante. Se sapesse usare contemporaneamente l’acceleratore e il cervello, a quest’ora sarebbe il pilota più titolato di tutti i tempi e tutti lo porterebbero su un piedistallo. Invece no, l’unica cosa che gli riesce bene è mettersi nei casini. Il fatto di essere un tipo solare e simpatico è sempre stato un vantaggio, per lui. Al posto di Koji, chiunque altro, almeno di tanto in tanto, verrebbe inseguito da gente inferocita armata di mazza da baseball. Invece Koji no, perché tutti lo adorano incondizionatamente. Di fatto non è cambiato per niente, da quando ci siamo giocati il titolo in Giappone. Allora aveva diciotto anni, adesso ne ha trentuno, ma è rimasto sempre lo stesso.»
    Grace si unì alle risate di Dalia.
    «Koji è fantastico. Adoro lavorare in un team in cui c’è uno come lui.»
    «Sono certa che anche lui adori stare in squadra con te» confermò Dalia. «Mitch dice sempre che uno dei motivi principali per cui non può fare a meno di fare danni è che preferisce pensare alle tue curve piuttosto che a quelle dei circuiti. Si sorprende solo che Koji non ti abbia mai chiesto di uscire insieme a lui.»
    Grace le strizzò un occhio.
    «Chi ti dice che non l’abbia mai fatto? Magari sono io che gli ho detto di no.»
    «Se dovessi cambiare idea» le suggerì Dalia, «E dovessi accettare di andare con lui da qualche parte, mi raccomando, non lasciarlo guidare.»

    Qual è stato il tuo momento migliore in Giappone? E quello peggiore?
    Per quanto possa sembrare strano il momento migliore non coincide con uno dei due titoli. È stato durante il mio primo anno, quando a Suzuka il mio compagno di squadra è arrivato secondo. Anche a me è andata bene, quella gara: quel quarto posto è stato il mio miglior risultato, in quel primo anno. Era stato un risultato inaspettato e tutta la squadra era all’apice della felicità. Abbiamo festeggiato tantissimo quella sera. È sicuramente il mio ricordo migliore.
    Allo stesso modo il mio momento peggiore risale sempre a quella stagione: all’ultima gara stagionale eravamo messi piuttosto bene e l’assetto era perfetto per la pioggia torrenziale che stava cadendo quel giorno al Fuji. Sono risalita dalle retrovie fino alla terza posizione. Sarebbe stato un risultato stupendo per me e per il team, tanto più che era la nostra ultima gara insieme. Non c’erano dissapori tra me e la squadra, nonostante ci stessimo per separare definitivamente: sapevano che valevo di più di quanto potessero offrirmi. Se avessi finito quella gara al terzo posto, quella sera avremmo festeggiato forse di più che qualche mese prima a Suzuka. Durante la gara sentivo che avrei raggiunto l’apice del successo. Era una sensazione sbagliata, dato che sono finita in aquaplaning.


    «Pioggia di merda!»
    Grace si schiarì la voce, prima di osservare: «Quest’ultima affermazione preferirei non inserirla, se sei d’accordo.»
    «Certo che no» confermò Dalia. «Per quanto sia l’affermazione migliore con cui concludere la risposta che ti ho appena dato, i lettori potrebbero non gradire.»

    Dopo un anno di Silver League e quattro anni di Nippon Series, hai finalmente fatto il tuo debutto in Golden League con il Team Athena e ti sei ritrovata catapultata in un mondo completamente nuovo.
    In realtà non è stato un “mondo nuovo” tanto quanto potrebbe apparire dall’esterno. Il fatto che la Nippon Series sia un campionato giapponese non significa che sia completamente diversa dalle serie internazionali. Certo, l’influenza asiatica si vedeva e si vede ancora, ma ai miei tempi la serie si era già parecchio internazionalizzata.
    La differenza principale, dal punto di vista mediatico, è stata la maggiore copertura degli eventi a livello mondiale. Al giorno d’oggi la Nippon Series può essere seguita più o meno ovunque nel mondo. Ai miei tempi non era proprio così.
    Ad essere abbastanza nuovo, per me, era l’essere in un team di livello medio-basso. In Giappone lottavo per il campionato, mentre nella Golden League spesso l’obiettivo era riuscire a terminare la gara sperando di non incappare nell’ennesimo guasto.
    Nel 200* è stata dura, mentre l’anno successivo le cose sono migliorate: meno problemi, qualifiche difficili, ma un buon passo gara. È stato quell’anno che ho ottenuto il mio primo podio: un terzo posto al Gran Premio del Canada.


    «Me lo ricordo perfettamente.» Grace scoppiò in una fragorosa risata. «Sul podio con te c’erano Arden e Barnett. Arden ti ha bloccata, mentre Barnett ti ha rovesciato lo champagne dentro la tuta. C’è stata una sorta di insurrezione popolare e qualche coglione ha scritto articoli sul fatto che quello fosse un abuso sessuale nei tuoi confronti.»
    «Già» confermò Dalia. «Al gran premio successivo sono stata convocata alla conferenza stampa del mercoledì mattina. Mi è stato chiesto testualmente che cosa ne pensassi del loro deplorevole comportamento.»
    «E tu hai risposto qualcosa che suonava come: “è da quando sono nata che non aspettavo altro che di essere sommersa di champagne sul podio di un gran premio della Golden League e ritengo che ciò che è stato scritto sui giornali di recente sia un’offesa nei confronti delle persone che hanno subito veri abusi sessuali”» ribatté Grace. «Anna Kravchenko in persona ha dichiarato dozzine di volte di stimarti profondamente, in quel weekend. Kathy Shelley, invece, ha fatto una delle sue sparate sul fatto che le donne pilota non verranno mai rispettate allo stesso modo degli uomini... il che magari è anche vero, ma in quel contesto non c’entrava proprio nulla.»
    «Infatti. La stessa Kathy, quando saliva sul podio e veniva sommersa di champagne, non mi sembra che ne fosse particolarmente disturbata. Anzi...»
    «A proposito, non te l’ho ancora chiesto» osservò Grace. «Che cosa ne pensi di Kathy Shelley?»
    Dalia aggrottò la fronte.
    «Lo scriverai nell’intervista?»
    «Certo che no.»
    Quella risposta le diede sollievo.
    «Kathy Shelley prende troppo a cuore questioni che non hanno nulla a che vedere con il motorsport. È un bene, in realtà. Ci vogliono anche un po’ di seri attivisti sociali, al mondo, non trovi? Il problema è che vuole combattere le sue battaglie facendo la team principal in Golden League, in un contesto in cui la maggior parte dei problemi di cui le piace occuparsi non sono neanche minimamente paragonabili a quello che succede al di fuori del mondo dell’automobilismo. Per il resto non ho nulla contro il fatto che abbia deciso di ingaggiare quasi solo donne, nel suo team, e che su tre piloti abbia scelto tre donne. La cosa che mi fa un po’ sorridere è che l’anno scorso abbia cacciato fuori dal box suo padre, con la scusa che là gli uomini non possono entrare. Va bene combattere per la parità dei sessi, ma appunto, il concetto di parità dei sessi implica che non esista soltanto il sesso femminile. Il giorno in cui la Shelley se ne accorgerà, se mai dovesse accorgersene, ne resterà molto sorpresa.»
    «Com’erano i rapporti tra te e lei, quando correvate nello stesso campionato?»
    «Era il normale rapporto che c’è tra chi corre nello stesso campionato e ha una conoscenza almeno marginale dei suoi colleghi. Io e Kathy scambiavamo qualche parola, di tanto in tanto, se ci trovavamo nello stesso posto. So che non condivideva certi miei atteggiamenti, così come io non condividevo certi atteggiamenti suoi, ma non è mai stato un problema per nessuno: siamo persone adulte e civili.»

    Dopo il Team Athena è stata la volta del salto di qualità: il team Rayo Fatal era una squadra di livello medio-alto e poteva permetterti finalmente di metterti maggiormente in mostra. Com’è stato il passaggio da una squadra all’altra?
    Mi è dispiaciuto lasciare il Team Athena, ma proprio come era successo quattro anni prima in Giappone, non potevo lasciarmi sfuggire la possibilità di salire di livello.
    Il 200* non è iniziato nel migliore dei modi. La squadra non mi apprezzava e io non facevo molto per farmi apprezzare. Credo che quello sia stato l’anno in cui ho sfasciato più macchine di tutta la mia carriera.


    «Un po’ come Koji, per intenderci.»
    «Sì, ma lui non ha mai smesso» ribatté Dalia, di fronte alla battuta di Grace. «In ogni caso mi sono data da fare. C’è stata una volta, dopo che avevo fatto danni, in cui il team manager mi ha convocata urgentemente. Mi ha urlato contro per venti minuti buoni, minacciandomi più volte di mettermi a piedi prima della fine della stagione. Mi raccomando, non scriverlo: questi sono gli scabrosi segreti del team Rayo Fatal.»
    «Quando è accaduto esattamente?» volle sapere Grace.
    «A Silverstone, quando sono partita ultima con la vettura di riserva dopo essere cappottata nelle qualifiche.»
    «Quella volta sei arrivata seconda, in gara, se non sbaglio.» [...]
     
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    Mi ricorda le interviste che ho fatto nelle quali le cose più interessanti sono off the records! :lol:

    E in effetti certe cose non si possono proprio scrivere talvolta...
     
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    Quindi come intervista sembra realistica? *Bene.* ^^
     
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    [...] «Esatto» confermò Dalia. «Volevo a tutti i costi dimostrare alla squadra che, per quanto mi considerassero una sfasciacarrozze patentata, si sbagliavano. Li ho stupiti. È il mio ricordo più bello di tutta la stagione.»
    «Direi che posso scriverlo nel mio articolo.»
    «Certo che sì.»

    Il punto di svolta è arrivato a Silverstone. Non era una gara semplice: dopo un brutto incidente in qualifica partivo ultima. Sono stata molto aiutata dalle circostanze ma allo stesso tempo credo che quel Gran Premio di Gran Bretagna abbia avuto delle conseguenze positive da cui il mondo del motorsport, in particolare la parte femminile del motorsport, trae tuttora dei vantaggi.
    C’è sempre stato un particolare grado di attenzione nei nostri confronti. Quella è stata la nostra rivincita. Il fatto che siano arrivate al traguardo soltanto undici vetture, di cui alcune doppiate di diversi giri, a causa di due diversi incidenti al via, ha sicuramente contribuito al risultato, ma ciò non lo rende meno storico. Probabilmente non accadrà mai più nella storia della Golden League di vedere tre donne sullo stesso podio. Per non parlare del fatto che quella è stata la prima vittoria di Anna Kravchenko, oltre che la prima vittoria di una donna nella Golden League. Io e la Shelley abbiamo solo completato l’opera.


    Qualcuno disse che il risultato della gara era falsato.
    In qualunque gara, qualunque sia il risultato, c’è sempre qualcuno che sostiene che si trattava di una gara falsata. Non ho ancora capito bene che significato diano al termine. Io, Anna e Kathy non abbiamo certo costretto i nostri colleghi a buttarsi fuori a vicenda per spianarci la strada. È stato un risultato imprevedibile, ma nulla di più.
    Credo che tutte e tre abbiamo dimostrato ampiamente di meritarci i nostri risultati. Anna ha vinto un’altra gara, prima della fine della stagione, e qualche anno più tardi anche Kathy è riuscita a ottenere una vittoria.
    Personalmente, tra il 200* e il 200*, anch’io ho dimostrato quanto valevo: in quella prima stagione ho chiuso al secondo posto il Gran Premio del Giappone, mentre l’anno seguente ho collezionato ben tre podi: terza al Gran Premio di Spagna, seconda al Gran Premio del Messico (uno dei momenti più belli della mia carriera) e infine ho ottenuto un ulteriore secondo posto.


    «A Interlagos, me lo ricordo perfettamente» osservò Grace. «Seppure nelle vene non ti scorra sangue brasiliano, i brasiliani ti hanno sempre considerata una di casa. Erano molto accalorati, quel giorno.»
    «Il pubblico, al Gran Premio del Brasile, è sempre accalorato» borbottò Dalia, «Anche quando non dovrebbe esserlo.»
    «Cerca di capirli. Finalmente in quel weekend stava succedendo qualcosa di positivo.»
    Dalia scosse la testa con fermezza.
    «Oh, no, in quel weekend non è successo proprio niente di positivo. Ti prego di non citarlo esplicitamente. Limitati a dire che ho ottenuto un ultimo secondo posto. Non merita spazio. È qualcosa che vorrei dimenticare.»
    Grace annuì.
    «Non c’è problema.»

    Dopo quattro stagioni di Golden League, hai intrapreso un altro percorso: la nascente Emirates Series.
    Ho passato un ottimo inverno, lontana dalla Golden League, in una serie emergente che ha dimostrato fin dall’inizio molto potenziale. Purtroppo soltanto i veri intenditori l’hanno capito fin da subito. Sfortunatamente è durata soltanto da novembre fino a marzo, poi è tutto finito.
    Anche la mia carriera ne ha risentito: per due anni solari non ho mai avuto un ingaggio stabile. Ho provato cose diverse, tra cui una fallimentare partecipazione alla 24 Ore di Le Mans (dalla quale ho appreso che le corse di durata non fanno per me) e qualche comparsa negli Stati Uniti, nelle poche gare sui circuiti cittadini.
    Ho fatto anche qualche piccola comparsa in Golden League: ho partecipato al Gran Premio del Messico e al Gran Premio del Brasile in entrambi quegli anni, con la Scuderia Moretti. La macchina non era molto competitiva e i risultati non potevano essere eclatanti, però non è mai andata male.
    Poi, l’anno dopo, all’età di ventinove anni, ci sono state due svolte nella mia vita: da una parte mi sono sposata, dall’altra è iniziata la mia carriera full-season in Indy Challenge.
    In quell’anno ho anche disputato il Gran Premio del Messico, arrivando quarta, il miglior risultato stagionale della Scuderia Moretti. Volevano che restassi con loro per tutto il resto della stagione, ma ormai avevo preso un’altra strada.


    «Bella gara!» ribatté Grace. «Avevo scommesso con degli amici che avresti conquistato almeno un punto, in quel gran premio.»
    «Beh, allora avrai vinto la scommessa.»
    «Sì, però non ho mai riscosso la vincita.»
    «Oh, mi dispiace.» Dalia rise. «Per caso i tuoi amici hanno dichiarato che la gara era falsata e si sono rifiutati di accettare il risultato?»
    «Certo che no.»
    «Bene. Mi sento sollevata.»

    In Indy Challenge hai disputato sette stagioni complete, se consideriamo completa anche l’ultima, in cui hai saltato alcuni appuntamenti a causa dell’infortunio a Indianapolis. Nel frattempo hai gareggiato anche nella Emirates Series.
    Quando la Emirates Series è stata rispolverata ed è tornata in vita, non potevo certo tirarmi indietro.
    All’epoca avevo già terminato tre stagioni complete in Indy Challenge, ottenendo risultati di un certo livello, tra cui alcune vittorie, ma ho capito che la mia vita poteva essere migliorata in qualche modo. Anche in questo momento ci sono state due svolte: la prima è che io e mio marito ci siamo lasciati definitivamente e la seconda è stata il mio ritorno nella Emirates Series. Ci sono rimasta per tre anni e, dopo un anno di stop, sono tornata.
    In contemporanea ho completato altre quattro stagioni complete (includendo l’ultima) nella Indy Challenge e ho fallito il mio tentativo di vincere la Cinquecento Miglia di Indianapolis.


    «Devo scriverlo proprio con questi termini?» domandò Grace. «Quello che hai fatto quel giorno non è classificabile come “fallimento”, a mio parere.»
    «Per te che sulla Cinquecento Miglia devi solo scrivere un articolo non è un fallimento» ribatté Dalia, «Mentre per me lo è stato eccome. Ero a un passo dalla vittoria. Mi sarebbe bastato mantenere la concentrazione per qualche istante ancora...»
    «E forse le cose sarebbero andate molto male» le ricordò Grace. «Le ricostruzioni di quello che non è successo erano da brivido.»
    «Mi fa piacere. A quanto pare sconvolgere gli appassionati di automobilismo è qualcosa di cui non si può fare a meno.»
    «Non credo che siano rimasti tanto sconvolti» obiettò Grace. «In quello stesso weekend...»
    Si interruppe.
    Per fortuna non continuò.
    Entrambe sapevano perfettamente che cosa fosse accaduto nel corso di quel weekend maledetto, prima ancora della Cinquecento Miglia.

    Dopo un anno di stop sei rientrata nella Emirates Series. Perché hai preso questa decisione?
    A volte ho bisogno di nuove sfide. Altre volte, invece, non resta altro da fare che rispolverare quelle vecchie.
    Io e il Team Vanilla siamo stati bene insieme, in passato. Sono successe anche cose negative, in epoca più recente, ma ci abbiamo messo una pietra sopra.
    Questa stagione sta andando abbastanza bene ed è quello che conta. A Losail ho potuto addirittura lottare per la vittoria.


    «Però ha vinto Dobson.»
    «Accidenti a lui» borbottò Dalia, tra i denti. «È sempre ovunque, quasi come il prezzemolo.»
    «Non è difficile, per te, ritrovarti ad avere a che fare con lui» puntualizzò Grace. «Anzi, dovresti consideralo un segnale positivo. Più gli stai vicina e più i tuoi risultati sono buoni.»
    Dalia sbuffò.
    «È un modo come un altro per dire che dovrei vedere Karl Dobson come un esempio da seguire? Non sono d’accordo.»
    «Tu e lui non siete mai andati molto d’accordo, ma non puoi negare il suo valore» obiettò Grace. «È uno dei piloti più competitivi della storia della Emirates Series.»
    Dalia si morse un labbro.
    “E in Golden League, invece, cos’ha fatto?” avrebbe voluto chiedere a Grace.
    Gliel’avrebbe domandato, se non avesse avuto buone ragioni per temere la risposta.

    Infine, le ultime tre domande, brevi e indolori. Cosa farai, una volta che la tua carriera di pilota sarà terminata?
    Non lo so.
    I miei genitori hanno gestito un team, Mitchell lo gestisce al giorno d’oggi, anche Anders se la cava bene da questo punto di vista... Io, invece, non credo di esserci portata. Ho bisogno di avere la testa libera, ogni tanto, e chi sta in una posizione del genere non ha mai la testa libera.


    A che età pensi di ritirarti?
    Non lo so.
    Dopo l’incidente di Indianapolis ho seriamente pensato di ritirarmi dalle competizioni. Allo stesso modo ho creduto che l’avrei fatto dopo la fine della stagione negli Stati Uniti.
    È cambiato tutto quando ho ricevuto una proposta molto allettante da parte del Team Vanilla. Non parlo di soldi, ma piuttosto dell’opportunità di rimettermi in gioco. Sono tornata e sono soddisfatta di averlo fatto.
    Non so dire quando mi ritirerò, anche perché non sarò certa che si tratti di un ritiro definitivo. Può darsi che in futuro decida di chiudere con le competizioni, ma che poi succeda qualcosa che mi porti a un ripensamento. Mai dire mai.


    Tornerai mai in Golden League?
    Non lo so.
    Al momento non ce l’ho in programma.


    «Ti prometto che non mi lascerò scappare niente.» Attraverso lo schermo del computer, Grace le lanciò un’occhiata supplichevole. «Quando hai risposto alle prime due domande, almeno, eri sincera?»
    «Ti ho dato risposte abbastanza articolate, mi pare» replicò Dalia. «Sinceramente non so né quando mi ritirerò né che cosa farò dopo. Chissà, magari incontrerò il principe azzurro e metterò al mondo un figlio.»
    Grace rise.
    Dalia aggrottò le sopracciglia.
    «Perché, mi vedi bene come mamma?»
    Grace scosse la testa.
    «Ridevo solo perché i principi azzurri esistono soltanto nelle fiabe.»
    «Me ne sono accorta» ribatté Dalia. «Vorrà dire che, prima o poi, saremo costrette ad accontentarci dei finti principi azzurri che vivono nel mondo reale. Oppure, nel tuo caso, più che di un principe azzurro, potrebbe trattarsi di un soggetto di altro tipo... per esempio un guidatore di autoscontri asiatico!»
    «Non ci penso nemmeno! Tornando alle cose serie, invece, avete già deciso quando farete l’annuncio ufficiale?»
    Dalia sospirò.
    «Il più tardi possibile, a quanto pare. Alla vigilia della stagione, probabilmente.»
    «E ai test?» obiettò Grace. «Come sarà spiegata la tua presenza?»
    «Non sarà spiegata. Ai test privati indosserò il casco di Ethan. Quando non sarò al volante, cercherò di non farmi vedere.»

    ***

    Dalia finì di allacciarsi la tuta, sotto lo sguardo attento di Claudia.
    «Buona fortuna» disse quest’ultima, con la voce subdola di chi si auspica che tutto vada male.
    Claudia sperava ancora di potere tornare negli Stati Uniti, al termine della stagione della Emirates Series.
    Dalia accennò un sorriso.
    «Grazie.»
    Claudia se ne sarebbe fatta una ragione.
    «Non c’è di che.»
     
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    Spero che Dalia non sia troppo formosa, altrimenti il travestimento nei panni di Ethan non sarà molto credibile :D :D

    In ogni caso alla giornalista secondo me mancava un po' di risolutezza
     
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    Effettivamente Grace è ancora alle prime armi, nel campo del giornalismo.
    Chissà che in futuro non dia il meglio di sé. XD

    (Dove quel "chissà" è perché io stessa non ho idea di che cosa succederà tra qualche capitolo...)
     
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    Capitolo 6 in arrivo! ^^
    Tra poco posterò la prima metà. ;-)
     
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