L'Ultima Stella Cadente

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    Per me che ho sempre inseguito la scrittura seria, fin da quando ho imparato a scrivere, è un po' un disonore avere scritto a un certo punto della mia vita una fan fiction piena dei peggiori cliché, che avrebbe potuto ricevere commenti del tipo "beliximohhhh kontinuahhhh!!!11!!!" su Wattpad. Non ho niente contro i cliché nelle fan fiction motoristiche, li sfrutto moltissimo anche al giorno d'oggi, ma solo per scrivere parodie o racconti in chiave trash. Invece no, la prima versione di USC, che non si chiamava USC, era un racconto serio.
    Ho provato, anni dopo, a tirare fuori Tina Menezes da un setting sulla Formula 1, inserendola in un campionato inventato, ma non ha funzionato. Quindi, dopo una pausa di riflessione durata anni, mi sono messa a lavorare su una nuova versione.
    Vi informo fin da subito che non state per leggere una fan fiction in cui ragazze uscite dal nulla vincono gran premi a caso, né dove piloti random di età avanzata vengono appiedati a caso per esigenze di trama. State piuttosto per leggere una fan fiction in cui ci sono le dodici scuderie standard dell'epoca 2010/2011, in più ci sono USf1 e una scuderia inventata dalla mia immaginazione che competono per fare parte delle ventisei vetture che hanno accesso alla griglia di partenza.
    La fan fiction sarà incentrata maggiormente su personaggi immaginari, mentre quelli ispirati a veri piloti faranno comunque da contorno. Dal momento che i protagonisti non potranno competere alla pari con le altre squadre, viste le vetture che guidano, i loro risultati non stravolgeranno quelli reali. Per intenderci verranno citati vari gran premi disputati tra il 2010 e il 2011, a fare da contorno agli eventi che narrerò, ma risultati e vincitori di gare e titoli mondiali rimarranno tali e a quali a quelli reali.
    Mi sono concessa le seguenti licenze poetiche, per esigenze di trama:
    1) accenni a campionati minori non esistenti nella realtà, perché i personaggi principali non possono arrivare in Formula 1 piovendo dal cielo;
    2) la partecipazione di almeno due piloti immaginari a un'edizione della 24 Ore di Daytona, citata nel prologo;
    3) la Race of Champions del 2013, anch'essa citata nel prologo, per poi essere citata, nelle mie intenzioni, anche nell'epilogo, che nella realtà fu cancellata per problemi politici nel paese ospitante, nella mia fanfic viene regolarmente disputata.





    1. ASPETTANDO LA RACE OF CHAMPIONS

    La sensazione che fosse giunto il mio momento arrivò all'improvviso.
    Ero in un luogo in cui non ero mai stata prima, ma mi sentivo a mio agio, come se stessi facendo una track-walk sull'asfalto di Interlagos.
    Il circuito sul quale si svolgeva il Gran Premio del Brasile era per me come una seconda casa e avevo sempre sognato di essere lì, in un giorno importante, a fare qualcosa di importante mentre terminava un campionato mondiale.
    Era buona norma che i campionati finissero a Interlagos, anche se non era sempre stato così: quando ero bambina, il campionato finiva in Australia, poi era venuto il Giappone e, in anni più recenti, anche Abu Dhabi.
    Avevo sempre pensato che far terminare la stagione ad Adelaide, a Suzuka o a Yas Marina fosse uno spreco, anche se secondo Shin mi facevo troppo influenzare dal fatto che Interlagos fosse il circuito della mia città natale.
    Chissà dov'era Shin.
    Non lo vedevo da tempo, ormai, ed era uno di quei piloti per cui avrei pagato qualunque cifra, pur di incontrare il suo sguardo ancora una volta, nonostante ormai le nostre strade si fossero separate.
    Shin non c'era, non era in Thailandia per la Race of Champions.
    Giusto, la Race of Champions, in Thailandia, che aveva rischiato di essere cancellata per tensioni politiche: un attimo prima mi ero sentita spaesata, senza ricordare dov'ero, ma di colpo era tutto molto chiaro.
    Era un giorno di dicembre come tanti, di lì a qualche ora si sarebbe svolta la Nation Cup e due uomini ormai al di sopra dei quarant'anni, a pochi passi da me, stavano amabilmente conversando, senza più avere dentro di loro la tensione che precedeva le gare "serie":
    «Secondo me, oggi vincete voi.»
    «Stai cercando di tirarmela?»
    «Esatto, come hai fatto a indovinare?»
    «Da quanti anni ti conosco? Venti? Venticinque? Hai sempre saputo di non avere speranze, tranne cercare di farmi il malocchio.»
    «Quando il mondo mi acclamerà, ti accorgerai che di speranze ne avevo, e anche tante.»
    «Va bene, ma se vinci ti sfido a festeggiare indossando un kilt senza sotto la biancheria intima.»
    «Affare fatto. Se vinciamo, festeggeremo in tenuta scozzese.»
    «Festeggerai, ho detto, non festeggerete. Non vorrai costringere una signora a sottostare alle nostre bassezze.»
    «No, certo, ma l'idea di Susie senza biancheria intima sotto al kilt mi attizza molto.»
    «Ricordati che sei sposato, vecchio sporcaccione!»
    «Ricordati che sei sposato anche tu. Cosa direbbe tua moglie se sapesse che attendi con impazienza di vedermi andare in giro senza mutande?»
    «Guarda che non siamo in una fan fiction erotica su di noi, pubblicata su un blog rosa glitterato da qualche nostra fan adolescente.»
    «Fammi capire, leggi fan fiction erotiche su di noi pubblicate su blog rosa glitterati?»
    «Certo che no. Le ha scoperte Felipe, una volta, e me ne ha fatte leggere alcune. Ci sono ragazze che hanno una fantasia smisurata. Potrebbero arrivare a scrivere che da un momento all'altro ti salto addosso.»
    «Tipo a Spa nel ‘98?»
    «No, senza le macchine.»
    «Oh, questo è un plot-twist che non mi piace affatto. Lo trovo inquietante. Quelle ragazze hanno un senso del macabro troppo intenso, per i miei gusti.»
    «Tu potresti addirittura possedere un utero, in quei racconti, e nove mesi dopo partorire il frutto del nostro amore.»
    «Non sono dettagli di cui desideravo essere informato. Se non vado errato, stavamo parlando di cose serie.»
    «Del tuo kilt?»
    «Esatto. Mi sembra un argomento di gran lunga più rilevante.»
    «Quindi, in caso di vittoria della Scozia, accetti di rimanertene con i tuoi gioielli al vento?»
    «Certo. Piuttosto che portare a termine una gravidanza...»
    Risero entrambi e io risi con loro, anche se nessuno dei due notava la mia presenza.
    Era stupendo essere a pochi passi da loro e, con un filo di rimpianto, mi dissi che sarebbe stato bellissimo sfidare David e Michael alla Race of Champions.
    Purtroppo i tempi erano cambiati, avevo altri obiettivi, adesso.
    La sensazione che provavo era confermata dal luogo in cui mi trovavo: avevo una missione da portare a termine, a Bangkok, e seppure non comprendessi di che cosa si trattasse, ero convinta più che mai a dare ascolto al mio istinto.
    Era come un flash, che mi passava davanti agli occhi, veloce come una stella cadente, veloce come io stessa avevo saputo essere, in passato. Ogni giorno avevo sempre inseguito i miei limiti per cercare di superarli, dimenticandomi fin troppo spesso di assaporare ciò che stavo vivendo.
    In quel flash c'erano la mia intera esistenza, la consapevolezza di avere ancora qualcosa di importante da fare, il rimpianto per ciò che avevo perduto...
    Il rimpianto tornava, di tanto in tanto. Faceva parte della storia della mia vita, tanto quanto il momento in cui, grazie al Brazilian Racing Team, il mio sogno di arrivare in Formula 1 era diventato realtà.
    Tuttavia la storia della mia vita non era fatta soltanto di ciò che avevo vissuto in prima persona: non era solo Tina Menezes come pilota, non era solo la ragazza che nel ricevere una proposta di matrimonio si era distratta ad ammirare due piloti che lottavano per la vittoria durante una gara di GP2, non era solo colei che puntava a diventare la reginetta delle retrovie, nella speranza di salvare dal fallimento una squadra senza speranze e senza liquidità.
    A condurmi a Bangkok a cercare il momento della svolta non fu esclusivamente quello che ero stata, ma anche ciò che era successo ad Aidan Thompson.

    ***

    «Ehi, Jong!»
    Il pilota diciannovenne Shin Jong ebbe un sussulto. Immerso nei propri pensieri come doveva essere in quel momento, probabilmente non si era accorto di Aidan.
    Gli bastarono, tuttavia, pochi istanti per riprendersi della sorpresa.
    «Caro collega» lo accolse, con tono teatrale, «A cosa devo l’onore?»
    «A cosa lo devo io, vorrai dire» ribatté Aidan, strizzandogli un occhio. «Non mi aspettavo che tu fossi un tipo da track-walk notturne.»
    «Perché no?» ribatté Shin. «Questo circuito, di notte, è uno spettacolo. Sarebbe uno spettacolo perderselo, non trovi?»
    «Perché, dove pensi che sarai la notte tra sabato e domenica?»
    «Al volante. Non ho tempo per guardare il panorama, quando sono al volante. Come si ostinano a dire i miei detrattori, sono troppo impegnato a guardare dove siano le auto dei miei avversari, in modo da poterli centrare con stile. Brutta cosa avere gli occhi a mandorla, quando sei un pilota. Io non faccio che ripeterglielo: “sono i piloti giapponesi quelli a cui avete appioppato l’etichetta di sfasciacarrozze”. Niente, nessuno vuole capire che se mio padre è coreano e mia madre è di Singapore io non posso essere giapponese. Tra l’altro sono cresciuto in Australia. Dovrebbero saperlo, visto i miei salti da canguro celebrativi quando salgo sul podio.»
    Ad Aidan sfuggi una risata.
    «Tu non sali sul podio abbastanza spesso perché qualcuno se lo ricordi e sei troppo giovane per essere preso in considerazione. E poi, finora, non sei mai stato sotto i riflettori. Un giorno, se ti si apriranno le strade della Formula 1, forse le cose cambieranno. Chissà, magari sarai ricordato come il Michael Schumacher d’Oriente.»
    Shin ridacchiò.
    «Ha vinto sei mondiali. Dubito di potere arrivare a quei livelli.»
    «Veramente» obiettò Aidan, «Ne ha vinti sette.»
    «Davvero? Quando ha vinto il settimo?»
    «Così, a occhio e croce, qualcosa come quattro o cinque mesi fa.»
    «Va beh, non cambia nulla. Corriamo in America, non siamo tenuti a sapere nel dettaglio quello che succede in Formula 1.»
    Aidan gli strizzò un occhio.
    «Hai ragione, sai? Mia figlia non ne è convinta, ma il futuro potrebbe essere proprio in America. Non faccio che ripeterle che un giorno sarà ricordata come la Sarah Fisher britannica, ma lei non fa altro che dire che un giorno sarà la Sarah Fisher della Formula 1.»
    «Chissà, magari quel giorno smetterà di definirmi come “quel giapponesino a cui deve ancora spuntare la barba”.»
    Aidan annuì.
    «Sono certo che quel giorno ti sarà già spuntata la barba da un pezzo, visto come funzionano le cose in Formula 1, ma dubito che Amber si renderà mai conto che sei coreano.»
    Shin rise.
    «Neanche gli americani se ne accorgeranno mai, credo. Per loro, se hai gli occhi a mandorla sei giapponese in automatico.»
    «E sei uno sfasciacarrozze.»
    Shin sospirò.
    «Quello, purtroppo, non lo pensano solo gli americani.»
    «Magari hanno ragione.»
    «Ci sottovalutano... e scommetto che mi sottovaluta anche tua figlia. Un giorno dovrà ricredersi: diventerò una star.»
    «Non parli sul serio.»
    «Certo che no.»
    «Invece dovresti» gli suggerì Aidan. «Sei pazzo abbastanza da potere puntare in alto.»
    «Lo so, ho qualche rotella fuori posto» ammise Shin, «Ma tu non sei da meno. Cosa ci fai ancora qui a quarantaquattro anni? Se tu fossi un pilota di Formula 1, ti saresti ritirato già da tempo.»
    «Non lo so, che cosa ci faccio ancora qua» ribatté Aidan, «Ma senz’altro su una cosa ci hai azzeccato: tu, di sicuro, hai qualche rotella fuori posto.»
    «Questa è la dimostrazione che...»
    Shin si interruppe, di colpo.
    Aveva lo sguardo rivolto verso il cielo.
    «Cos’è successo?» gli chiese Aidan. «Per caso hai visto un ufo? Credo che qualcuno dovrebbe spiegare agli alieni che Daytona è off-limits, per loro, o che almeno lo è alla vigilia della ventiquattro ore.»
    Shin ridacchiò.
    «Credo proprio che non fosse un ufo! Doveva essere una stella cadente.»
    Aidan raggelò.
    «Una stella cadente, hai detto?»
    «Sì, hai presente quelle cose luminose che durano un attimo? Quelle per cui la gente comune trascorre ore a guardare in su nelle notti d’estate, invece di guardare le gare di NASCAR?»
    «So di cosa stai parlando, Jong» puntualizzò Aidan. «Conosco le stelle cadenti, anche troppo bene.»
    «Mi sembri un po’ turbato.»
    «No, figurati, non è niente.»
    Pronunciare quelle parole gli diede per un attimo la sensazione che corrispondessero alla verità, ma si trattò di un’illusione rapida, che lasciò spazio a un grande senso di sconforto.
    Tutto era accaduto una notte di svariati anni prima.
    Non succedeva sempre, ma prima o poi, nel corso della stagione, arrivava la notte in cui la tensione gli impediva di dormire.
    Quello che stava vivendo all’epoca non era un campionato come tutti gli altri. Dopo tante stagioni lontano dai risultati di un tempo aveva finalmente avuto, seppure in una serie ben poco altisonante, un’altra chance di dimostrare che non era ancora un pilota finito.
    Fin dalla prima sessione di test aveva capito di disporre di una vettura competitiva, entro certi limiti. Aidan aveva concretamente iniziato a credere di potere finalmente conquistare quella famosa prima vittoria in carriera che inseguiva da anni.
    A suo tempo, dopo essere emigrato in Sudamerica, era stato, sempre e solo sulla carta, uno dei piloti più promettenti dei campionati di Formula 3 latino-americani, ma la sua reputazione era andata in frantumi a poco a poco a partire da quando si era accasato in una squadra che a parole avrebbe dovuto dominare, ma che in realtà era andata allo sfascio. Da quel punto in poi era stato tutto un declino: anni e anni di squadre di livello medio-basso, nell’uno o nell’altro campionato locale, senza mai indossare per più di due anni di seguito una tuta dello stesso colore e senza disputare quasi mai una stagione completa, mentre giovani talenti collezionavano non solo vittorie, ma anche campionati a ripetizione, che avvicinavano alcuni di loro alla Formula 1, alla Formula CART o alla Indy Racing League.
    Un tempo Aidan Thompson aveva inseguito il sogno di potere arrivare a quei livelli, ma molti anni più tardi si sarebbe accontentato anche solo di potere lottare stabilmente per il podio nel campionato di Formula 3 Brasiliana. Il progetto della squadra per l’anno seguente era molto promettente, ma il team era intenzionato a cambiare metà della propria line-up: accanto a un pilota molto più giovane di loro soltanto uno dei due titolari - nessuno dei due era giovane abbastanza da sentirsi al sicuro - avrebbe conservato il posto. L’onore sarebbe andato a chi avesse ottenuto risultati migliori nel corso della stagione e, a tre gare dalla conclusione del campionato, Aidan e il suo compagno di squadra Leo Menezes erano perfettamente appaiati in classifica.
    Aidan era stato lungamente davanti, ma due settimane prima era andato tutto in frantumi, quando Menezes era riuscito a portare a casa una vittoria inaspettata tanto quanto difficile da digerire. Il team aveva optato per due strategie diverse e, dopo il primo stint, era stato chiesto ad Aidan di lasciar passare il suo compagno di squadra, che avrebbe dovuto effettuare un pit-stop in più, per permettergli di guadagnare terreno. Menezes era riuscito a staccarlo al punto tale da rimanergli davanti, una volta che le soste erano state ultimate. Nel frattempo la monoposto che stava in testa alla gara si era ritirata per un guasto al motore, mentre una foratura aveva fatto precipitare nelle retrovie la vettura gemella che era stata a lungo in seconda posizione. Leo Menezes aveva ereditato la leadership ed era stato il primo pilota a passare sotto la bandiera a scacchi.
    Aidan aveva avuto la netta impressione che la squadra avesse già preso le proprie decisioni e, se c’era stata una persona che non avrebbe voluto incontrare quella notte, quella persona era proprio il suo compagno di squadra.
    Purtroppo aveva scelto la notte sbagliata per passeggiare per il circuito invece di dormire.
    Si era ritrovato faccia a faccia con Leo quando ormai era impossibile evitarlo.
    Si erano fissati per un lungo istante, dopodiché Leo aveva osservato: «Avevi ragione tu, sui nostri cari amici dalle vetture turchesi.»
    Aidan l’aveva guardato senza capire.
    «Avevo ragione su cosa?»
    «L’altro giorno hai detto che stavolta avrebbero potuto starci davanti. È andata proprio così.»
    «Non sono così rincoglionito» aveva replicato Aidan. «Non c’è bisogno che mi illustri il risultato delle qualifiche. Quanto sarà passato? Dodici ore?»
    Leo l’aveva corretto: «Undici e mezzo, più o meno.»
    Significava che mancavano ancora almeno tredici ore alla gara, aveva pensato Aidan, realizzando che iniziava a non poterne più.
    Convivere con l’ansia era giorno dopo giorno più difficile e non vedeva l’ora che quella stagione terminasse. Se fosse riuscito a realizzare il proprio intento avrebbe cercato di mettere in pratica tutti i buoni propositi per l’anno a venire, altrimenti si sarebbe messo il cuore in pace e avrebbe cercato di ricostruirsi una carriera altrove.
    Era rimasto in silenzio.
    Non aveva molti argomenti in comune con Leo, a meno che non si trattasse di polemizzare su qualcosa. Non era sempre stato così, ma i rapporti piuttosto tesi tra le loro figlie - due arrembanti kartiste - avevano peggiorato la situazione.
    Poi aveva ripensato ai fatti di quell’estate e aveva domandato al compagno di scuderia: «Cosa sta combinando Tina, adesso? Spero che non stia facendo danni.»
    «No, affatto. È tua figlia, piuttosto, che ha l’abitudine di fare danni. Quella ragazzina non dovrebbe guidare go-kart, ma dedicarsi ad attività più tranquille. Tina è sempre riuscita ad andare d’accordo con tutti, prima di conoscerla.»
    «Potrei dire la stessa cosa di...»
    Aidan si era interrotto.
    Una meteora aveva tagliato in due il cielo.
    Il suo sguardo era rimasto fisso sul firmamento anche dopo la sua scomparsa.
    «Cosa guardi?» gli aveva chiesto Leo. «Se cerchi un asino che vola, ti ricordo che gli asini non volano. Però ne ho uno qua davanti, che sta parlando con me.»
    «Non cerco asini in cielo» aveva risposto Aidan. «Se proprio ti interessa, ho visto una stella cadente.»
    «Oh...» Leo aveva proferito in un poco educato gesto scaramantico. «Scusa se mi tocco, ma quando ero giovane giravano leggende metropolitane poco piacevoli, qui in Brasile.»
    «Del tipo?»
    «Il mio compagno di squadra mi raccontò che suo padre, che era un ex pilota, una volta vide una stella cadente e la interpretò come un segnale di malaugurio. La vide alla vigilia di una gara, mentre stava parlando con un altro pilota. Costui, il giorno dopo, ebbe un incidente e morì.»
    Aidan aveva fatto una mezza risata.
    «Caspita, che allegria! Non pensavo che voi brasiliani foste così lugubri da raccontare storie del genere. Comunque è meglio se mi gratto le palle anch’io. Sarei io che devo morire, no?»
    «La stella cadente l’hai vista tu.»
    «E quindi?»
    «Quindi, se le leggende metropolitane non sono un’opinione, tu domani a quest’ora sarai ancora vivo e vegeto. La stella cadente ti ha solo annunciato la mia morte.»
    «Bene, così ho già un volante assicurato per la prossima stagione» aveva scherzato Aidan. «È un vero peccato che tu debba morire, però. Sarebbe bello se tu ci fossi ancora il giorno in cui le nostre figlie arriveranno entrambe in Formula 1 e la stampa inizierà a scrivere stronzate su di loro.»
    «Non morirò» gli aveva assicurato Leo Menezes, strizzandogli un occhio. «Ho ancora molte cose da fare, una delle quali romperti il culo.»
    Era curioso come un’assurda leggenda metropolitana che circolava tra i piloti brasiliani avesse avuto il potere di allentare per un attimo la tensione. Aidan ricordava di avervi pensato per un attimo il giorno dopo, mentre si apprestava a scendere in pista. Poi aveva ripulito la mente, dimenticandosi delle stelle cadenti e di Menezes.
    A distanza di anni, quel giorno di gennaio non parlò con il giovane Jong del ricordo di quella notte a Interlagos e dell’ultima volta in cui aveva parlato con Leo. Si congedò dal suo giovane compagno di squadra e decise che era giunto il momento di andare a dormire.
    Non faticò ad addormentarsi. Era nelle mani del destino e, da ormai tanto tempo, sapeva di potersi fidare più del destino che di se stesso.
    Le sue ultime ore furono serene. Nell’ultimo istante della sua vita ebbe il tempo di pensare che, tutto sommato, Daytona non era un luogo così brutto in cui morire.

    Edited by Milly Sunshine - 24/10/2018, 22:21
     
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    L'inizio della FF è molto intrigante, e fin da subito sottolinei come non si tratti di una storia di campioni, ma di piloti qualunque, quelli che in Formula 1 navigano nelle retrovie per qualche anno prima di sparire dai riflettori mondiali (riciclandosi in altre serie, soprattutto nord-e/o-sudamericane).
    La conversazione finale di Aidan e Leo è stata veramente inquietante, ma in un certo senso affascinante. La leggenda brasiliana riguardante il cattivo presagio della stella cadente è vera o di tua invenzione?
     
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    La leggenda metropolitana è mia invenzione. Purtroppo non conosco leggende metropolitane circolanti tra i piloti... ma chissà, magari ne esisteranno davvero. Sarebbe bello scoprirlo!

    Per quanto riguarda i personaggi di questa fan fiction, l'obiettivo sarebbe quello. Spero che la cosa vada a buon fine!
     
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    2. BRAZILIAN RACING TEAM PRIMA DEL DEBUTTO

    L'inverno era ufficialmente finito. Un nuovo campionato stava iniziando, per i fortunati che erano riusciti a raggiungere il Bahrein stando entro i tempi tecnici. C'era chi non ne era stato in grado e qualcuno azzardava che non ne sarebbe stato in grado mai, nonostante l'autorizzazione ad entrare a campionato in corso ricevuta da due squadre.
    Chi scommetteva che USF1 e Brazilian Racing Team non avrebbero mai messo in pista delle vetture, comunque, faceva parte di una ristretta cerchia di individui al corrente dell'esistenza di quelle due scuderie che avevano presentato la loro richiesta di ammissione al campionato 2010 e ne avevano ricevuto l'approvazione.
    Facevano parte, insieme al team malese che si faceva chiamare Lotus, alla Manor e alla Campos Meta (queste ultime due più comunemente note come Virgin e Hispania Racing Team), dei tanti team che avrebbero potuto entrare con difficoltà minori, se il budget cut che aveva fatto tanto discutere fosse stato approvato, ma la Formula 1 era andata dritta per la propria strada, fregandosene del fatto che, prima o poi, altre squadre avrebbero abbandonato la serie a causa di difficoltà economiche. Chissà, forse non sarebbe toccato solo a quelli che "non contavano nulla", ma anche a qualche nome di medio livello, come BMW e Toyota.
    La BMW si era salvata, rivendendo la squadra al vecchio proprietario Peter Sauber, mentre la Toyota era letteralmente sparita, di punto in bianco, nonostante i risultati nella stagione precedente lasciassero ben sperare.
    Gli appassionati di motori, tuttavia, non si preoccupavano minimamente di quanto accaduto a BMW e Toyota, quindi figurarsi se qualcuno di loro si degnasse davvero di prendere in considerazione chi sarebbe stato condannato non a partire dalle ultime caselle della griglia di partenza, ma forse nemmeno ad arrivarci, all'ultima fila. Dalma Hernandez non si faceva illusioni, ma il giudizio degli appassionati di motori la riguardava fino a un certo punto. L'idea malsana di suo zio di fare il salto di qualità, passando in Formula 1 dopo decenni di Formula 3 brasiliana, le era apparsa fin dal principio come un'autentica follia, ma era proprio quel genere di follia di cui aveva bisogno per dare un senso alla propria vita. Gestire la squadra si stava rivelando, e si sarebbe rivelata, un'impresa non da poco, ma Dalma era sempre più convinta che si trattasse di un'opportunità da non perdere, anche se le poche parole su di lei sarebbero sempre state negative.
    Dopo quasi trent'anni trascorsi interamente nell'ambiente del motorsport, aveva imparato a convivere con le strane idee che gli appassionati di motori sembravano condividere con gli addetti ai lavori: anche questi ultimi, infatti, avevano l'abitudine di demolire chiunque non dominasse, figurarsi come avrebbero accolto chi arrancava. Come minimo, la scuderia Brazilian Racing sarebbe stata tacciata di promuovere piloti senza talento in nome dei loro sponsor.
    Dalma trovava ridicoli quei commenti: al di là del fatto che trovava assurdo criticare le performance di Christian Menezes e di Manuel Serrano, due piloti che avevano avuto risultati eccellenti nella Formula 3 brasiliana, che cosa credevano, che ci fosse la fila, per salire al volante di una vettura che, a detta di molti, doveva ancora essere progettata? Che ci fossero piloti di primo piano pronti a sborsare soldi per appoggiare il fondoschiena sul sedile di una monoposto che aveva buone probabilità di non guadagnarsi nemmeno l'accesso sulla griglia di partenza?
    Qualora ci fosse stato anora qualcuno che nutrisse un minimo di fiducia nei confronti dei team entranti, questa doveva già essersi esaurita: i tempi fatti registrare dalle Lotus, dalle Virgin e dalle HRT fin dalle prove libere avevano lasciato poco spazio ai dubbi e quei pochi che persistevano dovevano essersi completamente dissolti dopo le qualifiche: ogni sprovveduto che fino a quel momento avesse ritenuto i "nuovi team" capaci di lottare alla pari almeno con le vetture meno performanti delle squadre già presenti nella stagione precedente doveva essersi tolto dalla testa quell'illusione.
    Dalma era certa che ci fosse già chi era pronto a dichiarare che i nuovi team non servivano a nulla e, seppure da un lato il loro ragionamento fosse corretto, in quanto non tutti sarebbero stati necessari, dall'altro non si rendevano conto che, senza nessuno dei nuovi team, ci sarebbero state soltanto diciotto vetture in pista e, nel giro di pochi anni, avrebbero potuto ulteriormente ridursi.
    Non che, in presenza dei "nuovi team", quel rischio non si corresse: prima o poi qualcuno di loro sarebbe fallito e Dalma sapeva che prima o poi anche per la sua squadra ci sarebbe stato lo stesso rischio.
    Quel giorno, alla vigilia del Gran Premio del Bahrein, tuttavia, le preoccupazioni per il futuro non la riguardavano. Voleva lasciarle da parte, almeno finché poteva ancora andarsene in giro senza essere riconosciuta. C'era senza ombra di dubbio chi pensava fosse un'ospite più o meno famosa, di quelle che nulla hanno a che vedere con il mondo dei motori e di cui, pertanto, gli addetti ai lavori ignorano l'identità.
    Nemmeno la televisione brasiliana le aveva dato molto peso, d'altronde loro avevano questioni più serie di cui occuparsi: c'erano ben quattro brasiliani al volante, di cui due in team di un certo livello, quindi non c'era spazio da dedicare a una squadra connazionale che per il momento non era ancora scesa in pista.
    Le sensazioni di Dalma erano contrastanti, quel giorno: se da un lato era felice del temporaneo anonimato, dall'altro non vedeva l'ora di uscirne.
    "Prima o poi si renderanno conto di chi sono io e di chi è Christian Menezes."
    Dalma riponeva una grande fiducia in quello che sarebbe diventato il pilota di punta della squadra. Purtroppo non avrebbe potuto ottenere risultati di particolare spessore, viste le difficoltà, ma era certa che sarebbe riuscito a mettersi in mostra e, chissà, attirare anche l'interesse di altre squadre, per il futuro. Se lo meritava: Dalma aveva visto ben pochi piloti più veloci di lui.
    Se suo zio avesse potuto leggerle nella mente, non sarebbe stato molto soddisfatto dei suoi pensieri. Non faceva altro che ricordarle che doveva lasciare fuori alla sfera professionale ogni condizionamento di tipo emotivo, ma era lui a non capire. Dalma sapeva giudicare il valore di un pilota e sapeva che non aveva nulla a che vedere con il fascino. Che Christian fosse sia talentuoso sia affascinante era un caso e l'anziano signor Hernandez avrebbe fatto meglio a mettersi il cuore in pace e a rendersi conto che sua nipote ragionava con la testa e non con le ovaie.
    "Dopotutto io mi sono messa il cuore in pace su qualcosa di molto più grande, accettare le mie capacità anche inconsciamente non deve essere una rinuncia così terribile."
    Anche Christian era stato costretto a una grande rinuncia e, diversamente dalla stessa Dalma, non aveva avuto la possibilità di ricevere una spiegazione.
    Avevano un grosso segreto in comune, ma uno di loro non ne sarebbe mai stato al corrente, per il bene di tutti.

    ***

    Il giorno del Gran Premio del Bahrein mi svegliai di soprassalto, rendendomi conto di avere fatto tardi.
    Dovevo prepararmi in gran fretta, perché quel giorno era previsto un raduno in grande stile. Non era la prima volta in cui io, Christian e Manuel ci trovavamo per guardare tutti insieme una gara di Formula 1 alla televisione, ma forse sarebbe stata l'ultima: di lì a un paio di mesi, con l'ingresso ufficiale del Brazilian Racing Team, entrambi avrebbero avuto occasione di gareggiarvi, o quantomeno di tentare di qualificarsi.
    Ero soddisfatta per loro, anche se sarei stata io in prima persona a pagare gli effetti negativi dell'impegno della famiglia Hernandez nella massima serie. Per tale obiettivo era stato necessario ridurre la loro presenza in Formula 3, dove avrebbero schierato due sole vetture. Non avrei più avuto la possibilità di disputare le poche ma sicure gare che mi venivano concesse ogni anno e, nella stagione 2010, avrei avuto molto tempo per guardare Christian e il nostro amico Manuel gareggiare.
    Non mi ero mai illusa che la mia presenza in Formula 3 potesse diventare fissa, ma la mia totale assenza avrebbe potuto determinare la fine della mia carriera o quantomeno un notevole passo indietro.
    Quella mattina, tuttavia, non volevo pensare agli aspetti negativi delle decisioni altrui, ma trascorrere una bella giornata insieme a Christian e a Manuel.
    Christian mi sollecitò più di una volta, mentre mi preparavo, ma alla fine riuscii a non ritardare troppo.
    Salimmo in macchina, diretti a casa di Manuel, che risiedeva nel centro di Sao Paulo, e mentre andammo via non potei fare a meno di mettermi a fare pronostici:
    «Secondo te chi vince oggi?»
    «Mhm... non saprei.»
    «Io punto tutto su Button.»
    Christian rise.
    «Perché proprio su Button?»
    «È il campione del mondo in carica, dopotutto» puntualizzai. «Guida una buona macchina. Sarebbe bello se vincesse, così metterebbe a tacere quelli che dicono che l'anno scorso chiunque avrebbe vinto il mondiale, al posto suo.»
    «Se avesse avuto un compagno di squadra più giovane e meno propenso a fare la seconda guida, probabilmente non avrebbe avuto vita così facile. Chissà, magari non avrebbe nemmeno vinto il titolo e nessuno, nel mondo, si sarebbe lamentato di un mondiale vinto da un pilota "uscito dal nulla" su una squadra senza un nome storico.»
    «Caschi male, Chris. Se Button non avesse vinto il mondiale, l'avrebbe vinto il suo compagno di squadra o Vettel sulla Redbull. Altro che nomi storici...»
    Christian sospirò.
    «E va bene, hai vinto tu.»
    «E comunque» decisi di insistere, «tutti quelli che hanno vinto non avrebbero vinto se il loro compagno di squadra fosse andato più forte di loro, non trovi?»
    Christian ridacchiò.
    «Va beh, consoliamoci. Button ce l'avrà quest'anno un compagno di squadra più forte di lui. In tempi molto brevi sarà un pilota finito e i suoi detrattori ne saranno molto lieti.»
    «Cerca di non fare queste affermazioni in sua presenza, quando vi vedrete» gli suggerii, «Altrimenti potrebbe ricordarti che cosa guidi tu.»
    «Purtroppo non sono sponsorizzato abbastanza per potermi concedere di meglio... e poi, comunque, qualificarmi su una Brazilian Racing potrebbe essere più complicato che vincere un mondiale su una Brawn. Se avesse qualcosa da dire su di me, potrei sempre farglielo notare.»
    «Non capisco tutta questa tua avversione nei confronti di Button.»
    «Io, invece, non capisco tutto questo tuo desiderio di difenderlo. Per caso sei diventata una fangirl?»
    «Perché?»
    «Perché Button ha gli occhi azzurro shocking e le ragazze non ragionano, quando hanno a che fare con piloti con gli occhi azzurro shocking.»
    «C'è chi ha gli occhi azzurri più shocking dei suoi» puntualizzai. «Dovrei far partire una petizione online per squalificare Button dal campionato 2009 e farlo vincere a tavolino a Vettel, a questo punto.»
    Christian sbuffò.
    «Pensavo di avere una sorella che segue le competizioni con interesse, non una che pensa solo agli occhi azzurri dei piloti.»
    Risi.
    «Smettila di fare il cretino. Non avrei parlato degli occhi azzurri di nessun pilota, se non fossi stato tu il primo a tirare fuori l'argomento.»
    «Ti assicuro che non sono innamorato né di Button né di Vettel» scherzò Christian. «Sei contenta, adesso?»
    «Lo sapevo» replicai. «Tu sei innamorato solo di Dalma Hernandez.»
    «Non dire assurdità.»
    «L'hai anche baciata.»
    «Che cosa ne sai?»
    «Me l'ha detto Manuel.»
    «Manuel non può saperlo.»
    «Quindi ammetti che è vero» realizzai. «Comunque Manuel sa sempre tutto, non c'è da sorprendersi che lo sappia.»
    «Tra me e Dalma non c'è niente» precisò Christian. «Smettila di farti dei viaggi mentali.»
    «Non mi faccio nessun viaggio mentale» lo rassicurai. «Sono certa che Dalma non te la darà mai, quindi ti credo.»
    A volte ci andavo giù pesante, quando si trattava di mettere in piazza i fallimenti sentimentali di mio fratello, ma sapevo cosa aspettarmi.
    «Vogliamo parlare di te, allora?»
    «Non è necessario.»
    «Sì, che è necessario» ribatté Christian. «Dalma non ne ha voluto sapere, ma altre donne sì. Vogliamo contare il numero di uomini che hanno mai espresso interesse nei tuoi confronti?»
    «Non ho bisogno di uomini. Sono sposata con il motorsport.»
    Christian convenne che era un'ottima risposta: alla fine ero riuscita a farlo tacere.
    Durante il resto del tragitto non ci furono scambi di battute degni di nota, né tornammo a parlare degli occhi azzurri di Jenson Button. Quest'ultimo dettaglio era un netto passo avanti.
    Arrivammo a casa di Manuel all'ultimo momento.
    «Vi siete persi tutto il pregara» protestò il nostro amico e collega. «Ci scommetto che è tutta colpa tua, Chris.»
    «Buongiorno anche a te, Manuel» ribatté Christian. «Ad ogni modo no, la colpa è tutta di Tina. Mentre io avevo già l'ansia che precede una gara, mia sorella stava ancora dormendo. Probabilmente sognava di prendere parte a un ballo in maschera, al quale incontrava un uomo mascherato con gli occhi azzurro shocking, che le giurava eterno amore.»
    Manuel strabuzzò gli occhi.
    «Cos'avete fumato stamattina?»
    «Niente.»
    «Forse Tina niente, ma tu...»
    «Quell'uomo» insisté Christian. «Era indubbiamente...»
    «Jaime Alguersuari» lo interruppi. «Io, però, scappavo perché si comportava da stalker. Mi avrebbe raggiunta se non fosse stato per l'intervento salvifico di Sebastian Vettel.»
    «Rettifico» replicò Manuel. «Anche tu hai fumato roba bella pesante.»
    Lo ignorai.
    «A quel punto Vettel minacciava di lasciare la Redbull se non mi avesse avuta come compagna di squadra, la Redbull accettava la sua richiesta, Webber veniva messo a piedi e tornava in Williams, mentre io gareggiavo per un top-team e a fine stagione vincevo il mondiale. Bel sogno, vero? Peccato che abbia dovuto inventarmelo sul momento, per non sfigurare.»
    Christian mi strizzò un occhio.
    «C'è solo un dettaglio che ti sfugge.»
    «Quale, se non sono indiscreta?»
    «Il tuo cavaliere mascherato non poteva essere Alguersuari.»
    «E perché no?»
    «Ho parlato di un uomo, non di un bambino a cui deve ancora spuntare la barba. Idem per Vettel.»
    «Vettel sarebbe un bambino? Come sei esagerato. Ha solo due anni in meno di noi.»
    «È un ragazzino, appunto.»
    «I piloti diventano adulti non appena vincono un gran premio.»
    «Quindi» dedusse Manuel, «un giorno leggeremo ai nostri bambini la biografia di Nick Heidfeld invece che la fiaba di Peter Pan.»
    Scoppiammo tutti a ridere, dopodiché Manuel ci fece finalmente entrare in casa. Gli ricordai che Heidfeld era pilota di riserva della Mercedes, il team che fino all'anno precedente conoscevamo come Brawn, e che potenzialmente aveva ancora qualche speranza.
    «Non credo proprio» replicò Manuel. «L'unica cosa che farà sarà essere pagato per indossare i loro indumenti sponsorizzati.»
    «Ma è la riserva di un quarantunenne!» puntualizzai.
    «A maggior ragione» insisté Manuel. «Se Schumacher non si è ancora ritirato finora, probabilmente non lo farà mai.»
    «Veramente» gli ricordai, «Si era già ritirato qualche anno fa.»
    «Non era un ritiro, ma una pausa di riflessione. Tutti tornano sui loro passi, prima o poi, specie quando sono ancora giovani promesse.»
    Arrivammo davanti alla TV dopo l'inizio del giro di formazione. Invece di guardarlo in religioso silenzio, Christian preferì criticarmi per avere fatto tardi.
    Finalmente, quando i semafori si accesero, decise di tacere.
    Guardammo la gara con un po' troppi cori da ultrà e con un po' troppi commenti da fanboy ignoranti, ma appunto, a volte era divertente prendere in giro i fanboy ignoranti piuttosto che gli stessi piloti.
    Soltanto quando Christian e Manuel si misero a criticare due nostri concittadini per le loro performance - nello specifico Bruno Senna e Lucas Di Grassi - pensai che avessimo raggiunto un livello di trash troppo eccessivo e ricordai loro che, quantomeno, Senna e Di Grassi stavano guidando delle monoposto, invece di guardare la gara alla televisione in attesa che le loro monoposto venissero progettate.
    La misero entrambi sul ridere poi, totalmente a caso, Christian mi fece notare quale dei due piloti McLaren fosse in una posizione più privilegiata, in quel momento, ricordandomi che gli occhi azzurro shocking non avrebbero protetto Button dalla difficoltà di confrontarsi con un altro campione del mondo che, diversamente da lui, era ritenuto meritevole del titolo che aveva vinto.
    «Lo so, gli occhi azzurri non contano» replicai, con un mezzo sorriso. «Se contassero, la macchina di Vettel non avrebbe deciso di farlo rimanere giù dal podio.»
    Con grande gioia dei ferraristi, la Ferrari ne approfittò per fare doppietta, davanti al compagno di squadra dell'altro tizio con gli occhi azzurri. Furono tutti molto esaltati dalla vittoria di Fernando Alonso alla sua prima gara in Ferrari, specie coloro che fino a pochi anni prima affermavano che non avrebbero più tifato la Ferrari se ci fosse stato lui al volante. Il nostro connazionale Felipe Massa, che avevamo avuto modo di conoscere in passato, arrivò secondo al suo ritorno dopo l'infortunio. Secondo Christian era un risultato molto positivo.
    Io e Manuel ci guardammo negli occhi e non servirono parole: ci comprendemmo al volo e capimmo che, secondo entrambi, Christian aveva appena pronunciato un'affermazione totalmente campata in aria. Non l'avrei mai detto esplicitamente davanti a Manuel, ma mio fratello non aveva la più pallida idea di che cosa significasse avere un compagno di squadra ingombrante.

    Edited by Milly Sunshine - 24/10/2018, 22:21
     
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    Ripeto, adoro come stai rendendo questa storia, soprattutto per come descrivi delle semplici comparse della F1, che commentano i Gran Premi come se fossero semplici appassionati (e, in fondo, sono o non sono appassionati che corrono solo per il puro piacere di farlo, senza sognare in grande?), gente comune come noi, anche se più fortunata.

    CITAZIONE
    «Jaime Alguersuari» lo interruppi. «Io, però, scappavo perché si comportava da stalker. Mi avrebbe raggiunta se non fosse stato per l'intervento salvifico di Sebastian Vettel.»
    «Rettifico» replicò Manuel. «Anche tu hai fumato roba bella pesante.»
    Lo ignorai.
    «A quel punto Vettel minacciava di lasciare la Redbull se non mi avesse avuta come compagna di squadra, la Redbull accettava la sua richiesta, Webber veniva messo a piedi e tornava in Williams, mentre io gareggiavo per un top-team e a fine stagione vincevo il mondiale. Bel sogno, vero? Peccato che abbia dovuto inventarmelo sul momento, per non sfigurare.»

    :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah:
    Qui ho sputato un polmone ...
     
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    :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah:
    Qui ho sputato un polmone ...

    Una citazione del genere non poteva mancare. XD
     
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 9/8/2018, 00:55) 
    CITAZIONE
    :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah: :aah:
    Qui ho sputato un polmone ...

    Una citazione del genere non poteva mancare. XD

    Certi capolavori non possono passare ignorati. U.U
     
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    Certo.
    Chissà, forse ci saranno delle ulteriori auto-citazioni, in futuro, ma non ne sono sicura.

    Però ho intenzione di mettere anche altre cose pittoresche, come ad esempio un momento in cui Tina parlerà con Shin dell'aspetto esteriore di qualche suo collega e
    dirà di trovare attraente Maldonado.
     
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 9/8/2018, 01:19) 
    Certo.
    Chissà, forse ci saranno delle ulteriori auto-citazioni, in futuro, ma non ne sono sicura.

    Però ho intenzione di mettere anche altre cose pittoresche, come ad esempio un momento in cui Tina parlerà con Shin dell'aspetto esteriore di qualche suo collega e
    dirà di trovare attraente Maldonado.

    Tsubarashi.
     
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    Sei sconvolto? :D
     
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 9/8/2018, 01:41) 
    Sei sconvolto? :D

    In senso positivo. "Tsubarashi" in giapponese significa "Meraviglioso".
     
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    Meraviglioso, cioè aaaaawwww.
     
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    3. AMBER THOMPSON VS TINA MENEZES

    Ho davanti agli occhi quella che sembra una scena di normale vita quotidiana.
    Lentamente, sta iniziando a fare giorno.
    Un uomo cammina nel soggiorno della propria abitazione.
    Si sorregge a un paio di stampelle, e mi è tutto chiaro.
    Cerco di non pensare all’incidente, ma è come se rivedessi l’auto uscire di pista e schiantarsi violentemente contro le barriere.
    Credevo di doverlo evitare, invece ho finito per provocarlo, eppure da allora tutto mi ha lasciato credere che quello fosse il mio destino.
    L’uomo accende la televisione.
    Il gran premio d’Australia scatterà alle sette, fuso orario dell’Europa Centrale.
    O meglio, quando arrivano le sette, il giro di formazione prova a scattare.
    C’è una vettura rossa, bianca e nera ferma sulla griglia di partenza.
    Viene trascinata ai box. Partirà dietro a un’altra vettura già pronta all’uscita della pitlane.
    Parte il giro di formazione, poi arriva il momento giusto: partirà anche la gara.
    Anzi, no, arrivano le luci gialle.
    C’è un’altra vettura rossa, bianca e nera ferma sulla griglia di partenza.
    Viene trascinata ai box. Partirà dietro alle altre due vetture già pronte sulla griglia di partenza, o chissà, forse non partirà neppure.
    A nessuno importa niente del destino dei “nuovi team”, che poi non devono essere più tanto nuovi.
    Soltanto due di loro sono sopravvissuti.
    Un tempo ce n’erano cinque.
    Arrivare in Formula 1 era stata una soddisfazione preceduta da mesi di sofferenze, in cui il rischio che tutto andasse a monte non si era mai del tutto azzerato.
    Mentre fisso un uomo seduto sul divano, con un paio di stampelle appoggiate alla parete, ripenso d’istinto al passato.
    Ripenso agli eventi che mi hanno condotta al Brazilian Racing Team.
    Ero la risposta ad Amber Thompson e, allo stesso tempo, Amber Thompson non sarebbe mai arrivata alla USf1 se piloti più celebri di lei avessero accettato di accasarsi presso la squadra americana. La USf1, però, non doveva offrire chissà quali garanzie, quindi non c’era da sorprendersi che chi aveva ben altri obiettivi l’avesse rifiutata.

    ***

    A Kansas City e nel resto del mondo mancavano ventotto giorni all’evento più importante dell’anno.
    Marco non avrebbe degnato di uno sguardo il giornale che la sua compagna di squadra, appoggiata a un muretto, teneva tra le mani, se non avesse intravisto la fotografia di una monoposto con una livrea a stelle e strisce.
    Si avvicinò, per accertarsi che fosse davvero una fotografia.
    Sembrava proprio che lo fosse e, accanto a quella vettura, c’erano due uomini e una donna in tuta che davano l’idea di essere piloti.
    «Quindi» osservò Marco, «La USf1 esiste davvero.»
    Danica annuì.
    «A quanto pare.»
    «Non me lo aspettavo» fu costretto ad ammettere Marco. «Credevo che, come si diceva, la monoposto non sarebbe nemmeno stata progettata.»
    «Ti sei pentito di non avere accettato la loro offerta?»
    «Niente affatto.»
    «Eppure, una volta, hai detto che il tuo sogno era quello di vincere la 500 miglia di Indianapolis e di passare in Formula 1... un po’ come ha fatto Montoya.»
    «Sì, ma non ho ancora vinto la 500 miglia di Indianapolis e Montoya è andato a correre per la Williams, non per una squadra uscita dal nulla che al posto di una macchina intende mettere in pista una scatoletta di acciughe.»
    Danica ridacchiò.
    «Sei molto critico della nostra squadra nazionale.»
    «Anche tu hai espresso le stesse critiche, mi pare» ribatté Marco, «E non avevi sicuramente tutti i torti. Fino a due mesi fa non esistevano nemmeno, eppure c’erano già tanti titoloni in stile “Marco Andretti e Danica Patrick saranno i piloti della USf1”. Sì, certo, come no...»
    Danica gli indicò la foto.
    «Hanno ingaggiato Dylan McKay.»
    «Immagino che quello sia il pilota di più alto livello che potessero procurarsi.»
    «Suppongo di sì.»
    «Quanti anni ha? Quaranta?»
    «Trentasette. Ha annunciato che questo sarà il suo ultimo anno prima di ritirarsi dalle competizioni e che per lui è un onore gareggiare in Formula 1.»
    «E il giapponese?» chiese Marco. «Chi è?»
    «È coreano. Shin Jong.»
    «Oh.»
    Marco non fu in grado di pronunciare molto di più di quel monosillabo.
    Tutti sapevano chi fosse Shin Jong, non tanto per i suoi meriti sportivi, passati un po’ troppo inosservati, ma per l’essere stato il compagno di squadra di Aidan Thompson alla 24 Ore di Daytona del 2005.
    La ragazza che posava accanto a McKey e a Jong aveva i capelli rosso acceso e dava l’impressione di essere una perfetta sconosciuta.
    «E lei?»
    «Viene direttamente dalla Formula 3 britannica. È stata scelta come tester.»
    «Chi è?»
    «È la figlia di Aidan Thompson.»
    «Non sapevo che Thompson avesse una figlia.»
    «Nemmeno io, ma non c’è da sorprendersi che la USf1 l’abbia ingaggiata. Volevano me per riportare una donna in Formula 1 dopo quasi vent’anni ma non ha funzionato, quindi si sono guardati intorno e hanno scelto l’unica opzione possibile. In più, essendo una semplice riserva, la metteranno ai box, in modo da guadagnarsi qualche inquadratura televisiva.»
    Marco alzò gli occhi al cielo.
    «Dovranno pure sopravvivere, in qualche modo.»
    «Certo, ci proveranno» ammise Danica, «Ma non sono convinta che sopravvivano a lungo. Sono entrate anche altre nuove squadre in Formula 1, che fanno una gran fatica. Figuriamoci questi, che non sono neanche riusciti a prendere parte al campionato fin dall’inizio.»
    «Quando debutteranno?»
    «Tra due settimane, in Spagna.»
    «Speriamo bene» borbottò Marco, con un sospiro. «Non offrono molte garanzie, ma sarebbe bello vedere finalmente una squadra americana in Formula 1.»
    Danica gli strizzò un occhio.
    «Ci sono cose molto più belle da questa parte dell’oceano.»
    Si riferiva senza ombra di dubbio a Indianapolis. Ancora quattro settimane, poi entrambi avrebbero avuto una nuova occasione.
    Comunque fosse andata, Marco era certo che nessuno dei due si sarebbe mai pentito di non essere passato in Formula 1 con la USf1. La Formula 1 rimaneva il pinnacolo dell’automobilismo, ma non era la sola categoria prestigiosa. Quando si trattava di fare delle scelte bisognava prendere in considerazione tutte le sfaccettature del caso: lasciare un team di successo in Indycar, presso il quale erano possibili risultati di spessore, per andare a fare il fanalino di coda in Formula 1, ingaggiati da una scuderia che forse non sarebbe nemmeno riuscita a scendere in pista, sarebbe stata una colossale pazzia. Marco comprendeva pienamente perché Dylan McKay, Shin Jong e la figlia di Aidan Thompson si fossero legati a quella squadra: loro avevano solo quella possibilità, se non volevano trascorrere tutta la vita a gareggiare in serie che secondo l’opinione pubblica e secondo gli addetti ai lavori contavano poco. Sarebbero andati in Formula 1 per arrivare ultimi e poi uscire di scena, dopo un anno, al massimo dopo due, ma l’avrebbero considerato il maggiore successo ottenuto nella loro carriera.

    ***

    Si accendono i semafori, stavolta va tutto bene.
    La vettura che parte dalla pole position ha uno scatto lento.
    Una Mercedes, una Redbull e una McLaren occupano le prime tre posizioni, superata la prima curva.
    Dietro si scatena il caos.
    Una vettura verde colpisce da dietro il retrotreno di una vettura bianca, della quale non riconosco la livrea, mentre piuttosto riconosco con chiarezza i colori del casco del pilota.
    La grafica mi informa che si tratta di una Williams.
    L’altra è una Caterham, ma l’identificazione non è difficile: ai miei tempi non era di un verde così tanto brillante, ma era comunque verde.
    Deve essere dura, per loro, arrivare ultimi oppure penultimi, anche se in termini di posizioni in classifica non cambia nulla.
    Un tempo c’erano le HRT.
    Poi c’era la USf1 e c’eravamo noi...

    ***

    Il mio primo giorno come pilota di riserva del Brazilian Racing Team fu molto diverso da quelli che si leggono nei racconti pubblicati in rete da appassionati che hanno un’idea piuttosto vaga di come funzioni la Formula 1.
    La prima volta che visitai la sede del mio team non scambiai la team principal per una centralinista, né tanto meno confusi il direttore sportivo con il portinaio.
    Anche quando arrivai nel paddock, le cose ebbero un’evoluzione molto diversa da come avviene talvolta nell’immaginario dei tifosi più giovani: non scambiai Michael Schumacher o Fernando Alonso per dei perfetti sconosciuti, né ebbi bisogno che mi fossero ufficialmente presentati. Allo stesso tempo anche loro erano al corrente, più o meno vagamente, della mia esistenza. Se mi avessero incontrata per strada con abiti neutrali, probabilmente avrebbero stentato a riconoscermi, ma non poteva accadere lo stesso se mi vedevano in giro per la pitlane, quando indossavo una maglietta verde e oro con il logo del Brazilian Racing Team e dei nostri pochi sponsor.
    Anche i giornalisti non furono tanto crudeli con me tanto quanto avviene nei racconti di fantasia: a loro, di solito, interessa di più demolire i rivali dei team o dei piloti che hanno un grosso seguito nel paese natale, secondo chiari dettami dei loro datori di lavoro; nessuno di loro si sveglia una mattina decidendo di rompere l’anima a una povera tester di una scuderia semi-sconosciuta, che non ha ancora effettuato un singolo test.
    Alcuni di loro mi ignorarono, altri furono piuttosto gentili, nei miei confronti. Anzi, mi bastò soltanto presenziare al gran premio di Spagna per guadagnarmi un’intervista per il pre-gara della televisione italiana, pre-registrata al venerdì, onore che né mio fratello né Manuel riuscirono a conquistarsi.
    Parlavo un italiano un po’ stentato, ma la giornalista - una signora bionda e robusta che faceva domande un po’ fuori dagli schemi, ma interessanti - parve comprendermi perfettamente:
    «Così tu sei il nuovo acquisto del Brazilian Racing Team e, con Amber Thompson della USf1, se la prima donna che, dal 1992, ottiene un ruolo come pilota in Formula 1. Ci sono possibilità di vederti al volante quest’anno?»
    «Alla sessione straordinaria di test che è stata concessa a noi e alla USf1 la prossima settimana qui a Montmelò, Christian e Manuel svolgeranno la maggior parte del programma, ma è prevista anche una mia uscita in pista, quindi a breve anch’io conoscerò la piccola belva. Al di là di questo la squadra intende puntare sui due piloti titolari, quindi al momento non è previsto che io prenda parte a nessuna sessione di prove libere: è fondamentale che Christian e Manuel facciano il maggior numero di giri per trovare maggiore confidenza con la vettura, dato che ogni minima sbavatura potrebbe essere fatale e significare non arrivare sulla griglia di partenza.»
    «È strano vedere due membri della stessa famiglia all’interno della stessa squadra. Che effetto fa essere terzo pilota nella stessa squadra nella quale gareggia tuo fratello?»
    «Probabilmente vista dall’esterno sembra una cosa fuori dal mondo, ma per me che ho sempre gareggiato contro mio fratello, fin da quando ero bambina, non è così strano. Anche in Formula 3, nella quale correvo con un programma part-time, ero nel suo stesso team. L’unica differenza è che, mentre in Formula 3 guidavamo entrambi, adesso gareggerà soltanto lui.»
    «La vostra squadra è arrivata in Formula 1 a campionato in corso e sembra evidente che il vostro percorso sarà tutto in salita. Quali sono i vostri obiettivi per questa stagione?»
    «Il nostro obiettivo per questa stagione è quello di arrivare sulla griglia di partenza. L’obiettivo è quello di qualificarsi con entrambe le vetture e di portarle al traguardo. Una volta che saremo riusciti a realizzare stabilmente questo nostro intento, allora si passerà alla fase successiva, che è quella di cercare di battere le Hispania Racing.»
    «Ci sono state varie critiche a proposito della poca esperienza che sia voi sia i piloti del team USf1 avete accumulato prima di arrivare in Formula 1. Credi davvero che ci sia un problema di poca esperienza o che sia stato ingigantito?»
    «L’attuale trend è quello di promuovere piloti di GP2 e credo che sia una buona cosa. Tuttavia non tutti i piloti hanno la possibilità di arrivare in GP2, ma non per questo significa che siamo necessariamente inferiori a loro. Peraltro piloti come McKay e Jong della USf1 hanno anche preso parte a competizioni di alto livello, gareggiando entrambi alla 24 Ore di Daytona. Per il resto penso che l’esperienza sia relativa. Button, Raikkonen e Ide erano visti tutti e tre come troppo inesperti per la Formula 1. Due sono diventati campioni del mondo. L’altro era davvero troppo inesperto. Mio fratello e Manuel Serrano non vengono né dalla GP2 né dalla World Series by Renault, ma penso che possano fare bene, limitatamente ai nostri obiettivi. Comprendo la preoccupazione, ma le critiche dovrebbero arrivare solo se dimostreranno di meritarsi di essere criticati.»
    Alla fine di quel weekend, girò voce che la mia intervista fosse stata apprezzata parecchio dai telespettatori, che tuttavia dovevano essere concentrati maggiormente su altre questioni, come la seconda posizione di Fernando Alonso, che si era classificato alle spalle di Mark Webber. Erano italiani, dopotutto, ed era più normale pensare che si entusiasmassero per la Ferrari, piuttosto che per la tester di una squadra che faticava ad arrivare in gara.
    A Montmelò né Christian né Manuel riuscirono a centrare l’obiettivo, nonostante avessero dato il massimo. Le USf1 arrivarono entrambe sulla griglia e una delle due monoposto arrivò addirittura al traguardo, con tanto di proclami. Li trovai un po’ fuori luogo, ma ero certa che anche Dalma avrebbe fatto la stessa cosa, se fossimo stati noi a qualificarci. I test della settimana successiva non andarono poi così male: ci fu qualche problema tecnico, ma non di grossa entità. Girai più lenta sia di Christian sia di Manuel, ma non mi aspettavo niente di diverso, anzi, mi aspettavo più problemi di quelli a cui effettivamente andai incontro. Per i tempi che feci registrare, quelli non erano un problema: a proposito di inesperienza, io ero più inesperta di entrambi i miei compagni di squadra.
    Montecarlo non fu un grosso punto di svolta: Christian conservò fino quasi all’ultimo il ventiseiesimo tempo che gli avrebbe consentito di entrare in griglia, ma venne battuto dalla USf1 di Shin Jong sul finale della sessione per appena un millesimo di secondo. Manuel, nel frattempo, era già fuori dai giochi. Le USf1 guadagnarono ancora una volta l’accesso alla griglia di partenza, ma stavolta nessuna delle due vide la luce del traguardo: McKay si ritirò per un guasto al motore e Jong si schiantò contro le barriere della Sainte-Devote.
    Poi venne l’Istanbul Park.
    Vennero le Redbull di Vettel e Webber che cozzarono l’una contro l’altra, mentre erano in lotta per la prima posizione.
    Vennero le McLaren di Hamilton e Button, che furono invece in grado di lottare per la prima posizione, senza cozzare l’una contro l’altra.
    Venne Manuel Serrano che, per la prima volta, aveva portato una Brazilian Racing sulla griglia di partenza e che, per la prima volta, vide la bandiera a scacchi, seppure con cinque giri di ritardo rispetto al vincitore, Lewis Hamilton, su McLaren.
    A quel punto il dramma si era già consumato: Shin Jong aveva avuto un incidente nelle prove libere del sabato mattina ed era molto improbabile che la sua vettura potesse essere riparata in tempo per prendere parte alle qualifiche. Mio fratello era certo che, quel giorno, si sarebbe garantito per la prima volta l’accesso alla griglia di partenza di un gran premio di Formula 1.
    Non era successo.
    Nessuno di noi poteva immaginare fino a che punto tutto ciò si sarebbe rivelato negativo nelle settimane a venire.

    Edited by Milly Sunshine - 24/10/2018, 22:21
     
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    Niente gloria, niente champagne, solo sopravvivere. La Brazilian Racing e la USf1 mi fanno una strana impressione, stanno davvero messe male se non riescono nemmeno a reggere il passo delle HRT. E ciò che hai lasciato trapelare alla fine del capitolo mi mette ancor più i brividi.
    Ho trovato molto interessante la conversazione di Danica e Marco. Hanno proprio ragione, molto meglio restare in America e godersi la loro "nicchia" (che poi nei fatti tanto nicchia non è) di popolarità con la pancia piena piuttosto che fare la fame pur di apparire in mondovisione. E' un punto di vista che condivido assolutamente.
     
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    Al momento in cui USf1 e Brazilian Racing Team entrano in Formula 1, la HRT ha già accumulato alcuni gran premi, quindi parecchi km di esperienza. Dal momento che anche la HRT stessa ebbe un miglioramento graduale (in qualifica nel primo GP stagionale presero 3-4 secondi di distacco dalle Virgin), mi è sembrato realistico farli partire male, anzi, mooooolto male.

    PS. Andretti III e Danica hanno fatto benissimo a non accettare l'ingaggio da parte di un team così disastrato! :woot:
     
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