Il Paradosso del What-if

Racconto ambientato in una serie di motorsport post-Apocalittica

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    Ladies & Gentlemen, come da buona tradizione è in arrivo un personaggio immancabile nelle mie fanfic a tematica motorsport: ecco a voi Ryuji, rappresentante degli asiatici pazzi (non ai livelli di Shin, ad ogni modo).



    Capitolo 13
    19 Agosto, Spa Francorchamps


    Il momento in cui tutto era cambiato era lontano mesi, ormai: per l’esattezza quasi quattro, nel corso dei quali molte cose erano cambiate, anche se più Ryuji guardava il mondo intorno a sé e più tutto gli sembrava uguale. I primi quattrocentocinquanta giri del campionato erano stati completati e, da parte sua, aveva completato la metà di essi.
    Quando non indossava tuta e casco cercava di alzare una barriera che lo tenesse lontano da quello che era in qualità di pilota, ma non sempre era facile.
    Ventisette aveva ragione, a suo tempo, era proprio giapponese, anche se non avrebbe rivelato la propria identità per nulla al mondo. A volte gli dispiaceva non averglielo mai confidato: Ventisette era stato un amico, per lui, uno dei pochi con cui avesse allacciato un rapporto stretto all’epoca della seconda divisione. Avevano parlato tante volte di futuro, avevano fantasticato sul momento in cui avrebbero raggiunto la massima serie...
    Qualche volta si erano addirittura illusi: sarebbe stato bello essere compagni di squadra, non doversi atteggiare l’uno nei confronti dell’altro come la A+ Series richiedeva a chi appartenesse a diversi team... Nulla di tutto ciò si era concretizzato.
    Nulla di tutto ciò si er-...
    I suoi pensieri rimasero a metà. Una ragazza che passava accanto a lui, lungo la pitlane dell’Albert Park di Melbourne, nella quale Ryuji stava passeggiando portando appeso al collo un pass che lo qualificava come giornalista, un piccolo accorgimento nei momenti in cui sceglieva di andare in giro indossando abiti civili, lasciò accidentalmente cadere qualcosa.
    Ryuji lo raccolse.
    Era uno piccolo specchio, possibile che le fosse uscito da una delle tasche dei jeans.
    Non si era accorta di nulla, si stava già allontanando.
    «Ehi!» provò a chiamarla Ryuji.
    Non ci fu niente da fare: il paddock dell’Albert Park era un luogo un po’ troppo caotico per farsi notare. Seppure lì nei pressi non ci fosse nessuno, la ragazza non doveva essersi resa conto che stesse cercando di attirare proprio la sua attenzione.
    Ryuji non perse tempo e si mise a inseguirla. Gli bastò accelerare il passo per raggiungerla.
    Le mise una mano su una spalla e la ragazza si girò.
    Ora che non vedeva soltanto i suoi capelli biondi, leggermente ondulati, e gli indumenti che portava (ai jeans aveva abbinato una camicia unisex a quadri), gli sembrava che avesse un’aria vagamente familiare.
    Lo guardava con un sorriso appena accennato, nel momento in cui gli chiese: «Stavi cercando me, per caso?»
    Non doveva essersi accorta della perdita.
    Ryuji le mostrò lo specchio.
    «Questo è tuo, immagino.»
    La ragazza annuì.
    «Sì, ma ce l’avevo in tasca. Non...» Andò a controllare nei jeans. «In effetti non ce l’ho più in tasca. Ti ringrazio.»
    «Di nulla» rispose Ryuji. «Ho visto che ti cadeva e ho pensato di riportartelo.»
    «Sei stato molto gentile.» La ragazza allungò lo sguardo, andando a cercare il pass di Ryuji. «Per che giornale lavori?»
    Ryuji avvampò.
    Si rendeva conto di non avere esattamente l’aspetto del giornalista, con i suoi capelli sparati in aria e le punte tinte di blu, ma c’era margine di recupero: gli venne in mente una scusa che l’avrebbe reso abbastanza credibile.
    «Lavoro per un sito web.»
    «Il logo non mi dice nulla.»
    Ryuji fece il possibile per non scoppiare a ridere. Quel sito web non esisteva, era naturale che la ragazza non lo conoscesse.
    «Immagino che tu non segua siti web giapponesi.»
    «Effettivamente no.»
    «Lo sospettavo.»
    «Non ti ho mai visto in giro, prima d’ora.»
    «Forse non ci hai fatto caso» suggerì Ryuji. «Voi occidentali pensate che noi giapponesi siamo tutti uguali. Sono certo che tu non abbia fatto caso a me.»
    «Veramente non tutti gli orientali hanno i capelli tinti di quella tonalità» azzardò la ragazza. «Ti avrei senz’altro notato.»
    «Non ho sempre avuto i capelli blu» puntualizzò Ryuji. «Me li sono tinti di questo colore in memoria di una persona a me cara.»
    Gli parve che la ragazza sussultasse, ma fu una sensazione di pochi istanti.
    Subito dopo, la sua interlocutrice gli tese una mano.
    «Mi chiamo Alysse. Piacere di conoscerti.»
    Gliela strinse.
    «Ryuji. Il piacere è tutto mio. Scrivi anche tu?»
    «No. Lavoro per uno dei team, ma preferisco non dire quale.»
    «Cosa fai?»
    «Mi occupo di public relation, diciamo.»
    «E come fai ad occuparti di public relation, se mantieni il riserbo più assoluto sulla squadra per la quale lavori?» obiettò Ryuji. «Perdona l’ignoranza, ma dovrai pure apparire in pubblico, di tanto in tanto.»
    «Non necessariamente. Scrivo comunicati. Intrattengo relazioni tramite il web e i social network. Insomma, non devo metterci la faccia.»
    «Peccato. Ispiri simpatia.»
    Alysse ridacchiò.
    «Non è un po’ prematuro affermarlo?»
    «Mi hai fatto quell’impressione fin dal primo momento» replicò Ryuji. «È un po’ come se ti conoscessi da sempre.» Si pentì subito di quell’affermazione, che doveva apparire tanto campata in aria. «Scusa, non so cosa mi prende. Che tu ci creda o no, non sono solito fare figure di merda con qualsiasi sconosciuto mi capiti a tiro. Mi dispiace se ti ho disturbata.»
    «Figurati. Mi ha fatto piacere parlare con te e mi ha fatto piacere anche recuperare il mio specchio.»
    Soprattutto quello, immaginò Ryuji.
    La sua reazione nel momento in cui aveva accennato alla ragione per cui si era tinto i capelli di blu non avrebbe dovuto lasciarlo indifferente.
    Si era forse svelato?
    Alysse sapeva qualcosa che avrebbe potuto riconoscere in lui Trentadue? Ryuji non aveva ancora maturato l’abitudine di pensare a se stesso come a Rosso Trentadue. Erano passati mesi, ormai, ma non riusciva ancora a capacitarsi di quello che stava succedendo.

    ***

    Il cellulare squillò, a tradimento, proprio quando Trentadue se lo aspettava di meno.
    Stava seguendo il post-gara con i commenti alla tappa di Spa Francorchamps, leggendo nel frattempo commenti sul web.
    Era tentato di scrivere qualcosa con il suo account denominato “Chinese Dragon”, ma non gli era venuto in mente niente di intelligente da comunicare al resto del web. Non che per scrivere sui social servisse davvero avere qualcosa di intelligente da dire, altrimenti quei luoghi virtuali sarebbero rimasti delle lande deserte, ma non gli sembrava bello scrivere qualcosa a caso tanto per il gusto di farlo.
    La suoneria personalizzata indicava che lo cercavano dai piani alti.
    Ryuji si affrettò a indossare tuta e casco, per presentarsi nella sede all’interno del circuito nella quale il CEO operava durante la trasferta belga.
    Fece più in fretta che poté.
    Argento Trentanove era andato a sbattere piuttosto violentemente, Trentadue non si sarebbe sorpreso di scoprire che avesse riportato delle fratture.
    “E io sono in testa alla classifica della seconda divisione.”
    Il CEO lo accolse con un sorriso.
    «Ho una bellissima notizia per te, Trentadue.»
    Il cuore gli fece un salto nel petto.
    “Adesso mi dice che Argento Trentanove è rimasto infortunato e che tra due settimane dovrò gareggiare al suo posto all’Hungaroring.”
    Naturalmente gli dispiaceva per lo sventurato pilota, ma con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a rientrare, in un modo o nell’altro: non era un tipo molto in vista, se gli fosse stato affidato un altro volante, in futuro, non ci sarebbe stato il rischio che venisse associato a due diverse squadre. Non sarebbe stato come Sette, che in molti associavano al colore rosso, ma che altrettanti appassionati preferivano associare al colore grigio: Trentanove era uno che non sarebbe stato ricordato né come membro di una squadra, né come membro di un’altra. Forse il suo botto di quel giorno sarebbe stato l’apice della sua carriera, tutto quello che in tanti avrebbero potuto ricordare di lui.
    La voce del CEO lo scosse.
    «Non mi chiedi di che cosa si tratti, Trentadue?»
    «Non saprei. Posso immaginarlo, ma...»
    Si interruppe.
    Si sentiva un po’ imbarazzato.
    “Magari mi ha chiamato per informarmi che le mie posizioni a proposito delle teorie del complotto sono diventate di dominio pubblico e che la mia carriera è finita, allora con naturalezza dovrò rispondergli che potrà anche cacciarmi dalle serie minori della A+, ma che non riuscirà mai a impedirmi di approdare nel Super GT.”
    L’idea di andare a gareggiare in Giappone non l’avrebbe fatto impazzire, ma l’importante era non apparire troppo affranto.
    «Puoi immaginarlo, ma hai paura che non sia vero. Non hai niente da temere, Trentadue: il grande giorno è arrivato, sei titolare di un volante nella massima serie. Chissà, magari un giorno riuscirai a far capire ai telespettatori che non tutti gli asiatici sono scarsi.»
    Trentadue si immaginò con la tuta grigio argento, come compagno di squadra di Novantuno. Era uno scenario molto piacevole, che tuttavia svanì di un istante.
    «Rosso Trentadue, ti do il benvenuto nella categoria in cui soltanto i migliori possono competere.»
    Trentadue spalancò gli occhi.
    «Rosso?!»
    «Sì. Prenderai il posto di Rosso Ventisette. È deceduto a causa di un forte trauma cranico pochi minuti dopo l’arrivo in ospedale.» Il CEO lo guardò dritto negli occhi. «Adesso puoi andare a festeggiare: Ventisette non tornerà mai indietro dall’Aldilà, quel posto è assicurato.»
    Invitato ad allontanarsi, Trentadue uscì dall’ufficio del CEO.
    Era vero che la realtà superava di gran lunga l’immaginazione: l’unica ragione per cui era stato promosso nella massima serie era la morte del suo amico più caro. Ventisette sarebbe stato sepolto in un cimitero anonimo, senza il proprio nome sulla lapide. Non solo Trentadue non avrebbe mai scoperto chi era davvero, chi si nascondeva dietro quel casco e dietro a quel numero storico, ma con tutta probabilità i suoi familiari non avrebbero mai saputo della sua morte. Semplicemente da un giorno all’altro un loro congiunto sarebbe svanito nel nulla e avrebbero trascorso il resto dei loro giorni nel dubbio.
    A quella sensazione di strazio che arrivava fino al profondo dell’anima ne seguì una più concreta: Trentadue aveva un urgente bisogno di vomitare.

    ***

    Alysse si stava allontanando.
    Ryuji le corse dietro, deciso più che mai a fidarsi di lei.
    Poteva essersi svelato troppo, ma non importava: se le cose stavano come pensava lui, non aveva nulla da temere.
    Quando la raggiunse, Alysse parve stupita.
    «Ancora tu? Devo pensare che tu ti sia innamorato di me?»
    Ryuji rise.
    «Questo è impossibile.»
    Alysse gli strizzò un occhio.
    «In molti l’hanno detto, poi si sono innamorati di me.»
    «Sono gay. L’unico modo che hai per farti innamorare di me è trasformarti in un uomo che risponda a una lunga serie di requisiti. Pensi di poterci riuscire?»
    «Ne dubito.»
    «Comunque non sono qui per parlare di un nostro futuro come coppia» chiarì Ryuji. «Volevo solo chiederti una cosa. Prima, quando ti ho detto di essermi tinto le punte dei capelli in onore di una persona a me cara, mi è sembrato che una simile idea non ti sembrasse completamente campata in aria. So che non dovrei chiedertelo e che tu sei libera di non rispondermi, ma non posso farne a meno: conoscevi Rosso Ventisette? Nel senso, avevi mai parlato con lui?»
    Alysse lo guardò negli occhi.
    «E tu?»
    «Te l’ho chiesto prima io.»
    «Potrei dirti di no, comunque stessero le cose.»
    «Potresti dirmi di no, ma mentiresti, vero?»
    «Questo l’hai detto tu, non io.»
    «Non hai niente da perdere» le fece notare Ryuji. «Non abbiamo niente da perdere. È vero, conoscevo Ventisette. Diciamo pure che ero molto legato a lui. Per caso sai dov’è sepolto? Vorrei potere visitare la sua tomba.»
    «Non lo so» rispose Alysse, «Ma vorrei scoprirlo. Se un giorno dovessi venirlo a sapere, potremmo andarci insieme.»
    A Ryuji parve che gli occhi della ragazza si facessero lucidi.
    «Sai altro di lui? Sai chi era? Avrà una famiglia, i suoi parenti non sapranno nemmeno che è morto. Non trovi che sia una cosa terribile?»
    Alysse annuì.
    «È terribile, ma non possiamo farci niente. Non abbiamo il potere di cambiare la situazione, né possiamo fare più nulla per Ventisette. Dobbiamo arrenderci, accettare che i tempi sono cambiati. Adesso c’è un altro al suo posto, un certo Rosso Trentadue. È asiatico, come te. Dovresti essere contento. Dovresti parlare di lui sul sito giapponese per il quale scrivi.»
    «Già, dovrei» mormorò Ryuji.
    «Ha fatto una bella tappa, in Ungheria, all’esordio» osservò Alysse. «È stato il terzo dei tre piloti arrivati a pieni giri, con Novantuno e Settantasette.»
    Era vero: Rosso Trentadue aveva sorpreso in positivo al debutto e, con settantacinque giri completati e una terza posizione al traguardo, aveva fatto parlare di sé. Tre tappe di gap dal leader della classifica, Viola Settantadue, non l'avevano spaventato.
    Il campione del mondo in carica, che aveva percorso quarantotto giri a Spa, prima di ritirarsi per un problema tecnico, era arrivato all'Hungaroring con centonovantasette giri percorsi. Il suo principale sfidante, dopo la triste fine di Rosso Ventisette, appariva l'ormai eterno secondo Argento Novantuno: davanti a tutti in Belgio, si era portato a quota centoventidue giri.
    Per fortuna a nessuno dei due era andata molto bene in Ungheria, con entrambi coinvolti, loro malgrado, in incidenti: Settantasette era salito ad appena duecentodue giri percorsi, mentre Novantuno, che aveva percorso cinquantacinque giri, era salito a quota centosettantasette. Aveva "appena" centodue punti in più di Rosso Trentadue, a quel punto, e secondo gli standard del rookie non era una distanza così abissale.
    «Concordo» convenne Ryuji, senza esagerare troppo nell’entusiasmo, perché, anche se Alysse non aveva idea del fatto che lui e Trentadue fosse la stessa persona, ne era al corrente lui stesso e non gli piaceva atteggiarsi a spaccone. «Comunque anche in Giappone, all’inizio di ottobre, ha dato il meglio di sé. C’è chi ha detto che quella di Suzuka deve essere la sua tappa di casa, altrimenti non si spiega come mai sia riuscito ad essere l’unico pilota giunto al traguardo a pieni giri.»
    A Suzuka il leader della classifica, Viola Settantasette, era uscito di scena dopo appena quattro giri.
    Si era ritrovato davanti Argento Trentanove, che aveva subito una foratura al primo giro ed era sul punto di essere doppiato. Trentanove non sembrava essersi ripreso bene dall'incidente di Spa, collezionava una cappellata dopo l'altra ed erano in tanti a desiderare il suo ritiro. Rosso Quindici, da sempre additato come uno dei piloti meno adatti a una carriera competitiva a lungo termine, doveva sentirsi finalmente in pace, da quando l'oggetto della denigrazione collettiva era un altro.
    C'era stato un bel duello per la leadership della tappa tra Rosso Trentadue e Argento Novantuno... o almeno, a Trentadue era sembrato un duello emozionante. Con trentaquattro giri completati erano venuti a contatto: Trentadue aveva proseguito imperterrito, mentre non si poteva dire lo stesso di Novantuno, costretto al ritiro in una via di fuga.
    Sebbene fosse salito a quota duecentoundici giri completati, contro i duecentosei di Viola Settantasette, sottraendogli la testa della classifica, non era stato per niente soddisfatto. Aveva fatto una lunga serie di proclami contro tutto e contro tutti, in primis contro Rosso Trentadue, che si era portato a centocinquanta e che iniziava a godere di una certa approvazione. Nelle settimane che avevano separato la tappa giapponese da quella di Sepang, in Malesia, si era inventato un’assurda storia a proposito di spambot asiatici che votavano Rosso Trentadue a raffica.
    Per fortuna in Malesia si era concentrato su un altro obiettivo, ovvero Viola Settantasette: i due avevano combattuto ruota contro ruota per una decina di giri verso la fine e Settantasette l’aveva preceduto di un soffio sul traguardo. Ciò non cambiava nulla in termini di classifica, Novantuno era sempre davanti, ma non tollerava bene che il suo prestigio venisse intaccato. Duecentottantasei contro duecentottantuno: Rosso Trentadue, che li aveva seguiti per tutta la gara, era a quota duecentoventicinque ed era sempre più carico di belle speranze. Sapeva che non tutte le tappe avrebbero avuto un esito così positivo, ma da parte sua non si arrendeva. Con cinquecentocinquanta giri ancora da completare c’erano buone possibilità di recuperarne poche decine nei confronti dei due battistrada.
    Alysse dichiarò: «Quello che è successo dopo, dimostra che Rosso Trentadue non ha bisogno di essere a casa per ottenere buoni risultati. So che quello che sto per dire è assurdo, ma se dovesse continuare su questi standard e Argento Novantuno e Viola Settantasette dovessero ritirarsi, potrebbe addirittura salire in testa alla classifica.»
    Ryuji annuì.
    «Potrebbe, ma questo significa volare alto.»
    «I piloti, infatti, hanno l’abitudine di volare alto... quelli competitivi, almeno.»
    Ryuji rise.
    «In realtà quelli che volano più in alto, materialmente, sono quelli più propensi al caos.»
    «Sì, è vero, ma non intendevo in senso letterale.»
    «L’avevo capito, ma ci sono tante sfaccettature. Forse non bisognerebbe entusiasmarsi troppo per Rosso Trentadue. In fondo ha preso il posto di Rosso Ventisette soltanto perché quest’ultimo è morto. Non è un grande merito, no?»
    Alysse sospirò.
    «Purtroppo funziona così. In un mondo ideale, nessun pilota morirebbe al volante. Tuttavia non viviamo in un mondo ideale, ma...»
    Ryuji la interruppe: «Ma in un mondo in cui la morte viene considerata un veicolo di spettacolo. Non ci crederai, ma ho visto delle meme sull’incidente mortale di Rosso Ventisette. Tutto ciò è disgustoso, non credi?»
    «È così che funziona, ormai» replicò Alysse. «Rosso Ventisette portava il numero 27, guidava una vettura rossa ed è morto in Belgio. La gente pensa che tutto ciò sia bello e romantico, perché anche Gilles Villeneuve morì in Belgio al volante di una vettura rossa con il numero 27. La cosa più preoccupante è che, con tutta probabilità, tra trent’anni ci sarà gente che rimpiangerà la morte di Rosso Ventisette, non perché Rosso Ventisette sia morto, ma perché la sua morte gli ha impedito di lottare per il mondiale. A meno che Rosso Trentadue non riesca nell’impresa del secolo, ci sono buone probabilità che vada a finire proprio così.»
    «Non ne sono tanto sicuro» obiettò Ryuji. «I piloti, al giorno d’oggi, vengono visti soltanto come dei robot. Morto uno, ne arriva un altro.»
    «Qualcosa è cambiato» insisté Alysse. «Temo che sia cambiato proprio con Rosso Ventisette. Se solo Cinquantadue non avesse aderito a quelle assurde teorie del complotto, non sarebbe mai salito al volante di una vettura rossa.»
    «Non possiamo dare a Cinquantadue delle colpe che non ha. Quel poveretto è stato costretto a riciclarsi in Indycar.»
    «Penso che ne sia piuttosto felice.»
    «Sì, ma rimane pur sempre solo la Indycar.»
    «Cinquantadue è convinto che la Indycar sia il pinnacolo del motorsport, o qualcosa del genere, e che semplicemente la gente non se ne sia ancora accorta» mise in chiaro Alysse. «Credo che si sia messo in testa di essere il salvatore dell’umanità, colui che aprirà gli occhi a tanti poveri sprovveduti che non si sono ancora accorti di come funziona davvero il mondo dell’automobilismo.»
    «Insomma, Cinquantadue è uno che, se sentisse parlare di modestia, dovrebbe correre a cercarne il significato sul dizionario... e anche dopo avere letto la definizione, non avrebbe la più pallida idea di che cosa si tratta.»
    «Il problema non è la mancanza di modestia di Cinquantadue, se ci pensi bene. È piuttosto il fatto che, anche se Cinquantadue fosse davvero il salvatore dell’umanità, pronto ad aprire gli occhi a tutti sull’Unica Verità del motorsport, si ritroverebbe davanti una folla di cretini che non si renderebbero minimamente conto di tutto ciò. Cinquantadue fa bene a considerarsi di molti scalini al di sopra della gente che sostiene che i campionati esterni alla A+ Series siano feccia: qualunque sia il valore di quei campionati, i loro detrattori sono in gran parte persone che non capiscono assolutamente nulla di automobilismo, ma che si atteggiano a guru pur senza avere la più pallida idea di ciò che dicono.»
    Ryuji la fissò per qualche istante in silenzio, infine osservò: «Si direbbe che tu non riponga la benché minima fiducia negli appassionati di motori.»
    «Certo che no» ribatté Alysse. «Perché mai dovrei prendere in considerazione gente che sostiene che i risultati delle tappe, dei campionati e l’identità dei piloti vittime di incidenti mortali dovrebbero essere stabiliti a tavolino, tramite sondaggi online? Vorrebbero avere il controllo su qualsiasi cosa. È un po’ come se il risultato della finale dei mondiali di calcio dovesse essere stabilito sulla base di una partita a biliardino fatta in spiaggia da dei ragazzini.»
    Con quel paragone, si salutarono: si era fatto tardi per entrambi.
    Quella sera “Chinese Dragon” ricevette un messaggio da parte di “Lord of Fanboys”. Sosteneva di essere Ventisette e di essere vivo.
    “Chinese Dragon” lo ignorò.
    Ryuji iniziava ad avere l’impressione che Alysse sapesse più di quanto fosse pronta ad ammettere, a proposito di Rosso Ventisette. Temeva che quel messaggio gli fosse arrivato proprio a causa della conversazione con la ragazza.
    Sarebbe stato di pessimo gusto, se l’autrice fosse stata lei. Violare l’account di un defunto, spacciarsi per lui e fingere di essere vivo, da parte di una dei pochi che, in un mondo come quello della A+ Series, non si facevano troppi problemi a mostrare un po’ di umanità...
    Ryuji valutò la possibilità di cancellare l’account di “Chinese Dragon”, ma non lo fece. Nonostante tutto non riusciva a sentirsi in pericolo.
     
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    Capitolo 14
    Il primo lembo della maschera


    A mesi di distanza dal tardo pomeriggio in cui l'aveva abbandonato in un bar di Spa, Yannick incontrò di nuovo Alysse. L'aveva intravista da lontano, a volte, nel corso del campionato, ma la ragazza non si era mai accorta di lui e Yannick non aveva fatto niente per cambiare la situazione.
    Non aveva cercato Alysse e Alysse non aveva cercato lui, ma si ritrovarono a tu per tu, la sera prima della gara, all'uscita del circuito.
    Yannick si guardò intorno, cercando una via di fuga: non ce n'erano. Alysse gli stava già facendo un cenno di saluto con la mano e, nei dintorni, non c'era nessuno che potesse mettersi tra di loro.
    Quando Alysse fu a meno di un metro di distanza e lo salutò, per un attimo Yannick rimase interdetto.
    Come doveva comportarsi?
    Doveva chiederle che fine avesse fatto, quella volta in cui l'aveva piantato in asso così dal nulla, senza mai degnarsi di fornirgli una spiegazione?
    Decise di no, optando per tenere lontana, finché fosse stato possibile, la vita privata da quella professionale.
    «Hai sentito l'ultima novità?» le domandò.
    Alysse gli scoccò un'occhiataccia.
    «Non so se te ne sei accorto, ma ho appena pronunciato il termine "buonasera". Le persone educate rispondono in un altro modo.»
    Sembrava divertita.
    «Buonasera, Alysse. Come mai ti trovi da queste parti?»
    «Mhm... fammi pensare, forse perché lavoro per uno dei team che prendono parte a questo campionato.»
    «Giusto, non ci avevo pensato. Adesso che ho rispettato tutte le formalità, posso chiederti di nuovo se hai sentito quello che si racconta nel paddock?»
    Alysse alzò le spalle, con indifferenza.
    «Si raccontano tante cose.»
    «Mi riferivo ai rumour sul Piccolo Quattro.»
    Alysse parve faticare a trattenere le risate.
    «Fammi capire, Yannick, mi stai dicendo che ci sono dei pettegolezzi a proposito di un bambino che avrà massimo dieci anni?»
    «Quel bambino è il grid kid fisso di uno dei piloti che prendono parte a questo campionato... sempre ammesso che Bianco Quattro stia prendendo parte a questo campionato e il suo numero di gara non venga inserito nella grafica per abbellirla. Non mi sembra di averlo mai incontrato, in pista. È anonimo anche quando viene doppiato, anche se non tanto quanto il suo compagno di squadra.»
    «Porta rispetto» gli intimò Alysse. «Te lo ricordi che Bianco Dieci ha vinto un titolo, quando nessuno ci credeva più?»
    «Sono certo che fosse al volante di una vettura irregolare.»
    «Le vetture sono tutte uguali.»
    «Si narra che, grazie alla volontà popolare, sia riuscito a disputare quella stagione guidando una vettura che aveva un foro sul fondo, che garantiva prestazioni migliori.»
    «Si narrano tante cose» puntualizzò Alysse, «Ma non è detto che tutto sia vero. E poi Bianco Dieci ha gli occhi di quella tonalità che a suo tempo è stato definita come azzurro shocking. Sei sicuro che non abbia vinto per questo?»
    Yannick annuì.
    «Hai ragione, non ci avevo pensato. Doveva avere sicuramente una buona schiera di fangirl al suo seguito, anche se c'è chi dice che abbia comunque già una certa età. Quando ha vinto era sicuramente più giovane, ma ci sono sospetti sul fatto che fosse già in giro prima ancora della fondazione della A+ Series.»
    «Ha gli occhi di un azzurro brillante come quelli di quel rookie della Williams dell'ultima stagione.»
    «Stai insinuando che si tratti della stessa persona?»
    «Certo che no. Anche in seconda divisione è sbucato fuori un tizio che ha gli occhi azzurro shocking. Non possono essere tutti quel rookie della Williams.»
    «Però il nostro caro ex campione del mondo divenuto un elemento di tappezzeria guida una vettura bianca» osservò Yannick. «Chissà come sarebbero andate le cose, magari la Williams potrebbe essere bianca, al giorno d'oggi, se il vecchio campionato ci fosse ancora.»
    «Considerando che sono passati diciotto o diciannove anni da quei tempi, quel rookie potrebbe avere cambiato numerose squadre nel frattempo» gli ricordò Alysse. «Potrebbe anche essersi ritirato. Oppure potrebbe andare e venire, un po' come ha fatto a suo tempo Bianco Quattro.»
    La storia di Bianco Quattro era una delle più curiose della A+ Series, nella quale aveva gareggiato per anni come Turchese Quattro, prima di finire fuori dalle competizioni a causa di un pesante infortunio, già diversi anni prima. Proprio come chi in Formula 1 portava il numero 4, aveva portato nella A+ Series il destino di quel numero, ovvero quello di non vincere mai un mondiale. A volte aveva lottato ad armi pari con quelli che contavano, ma il successo, per lui, non si era mai concretizzato. Per quella ragione nessuno si era particolarmente scandalizzato quando era stato "riciclato" all’improvviso, per sostituire un pilota che, da un giorno all'altro, aveva deciso di darsi alla macchia.
    Fin dal suo ritorno, Bianco Quattro portava con sé un bambino al quale faceva indossare una tuta e un casco ispirati ai suoi. Lo seguiva ovunque, fuori dalla pista, gli faceva da mascotte e a volte si faceva anche intervistare. Bianco Quattro aveva spiegato in molteplici occasioni che, dal momento che la sua vera famiglia non poteva essere messa al corrente della sua identità, aveva "adottato" un piccolo sconosciuto che potesse accompagnarlo, tenendo celata a sua volta la propria identità. Ai piani alti qualcuno aveva storto il naso, poi avevano visto le smisurate quantità di like che il Piccolo Quattro riceveva e tutti avevano decretato all'unanimità che, per quanto li riguardava, Bianco Quattro poteva tranquillamente portare con sé un bambino in tuta e casco e fingere che si trattasse di suo figlio.
    Quel bambino, tuttavia, si era lasciato sfuggire parole che non avrebbe mai dovuto pronunciare: era quella la novità di cui si parlava con insistenza nel paddock.
    «Il Piccolo Quattro» rivelò Yannick ad Alysse, «è stato sentito parlare in portoghese. Qualcuno sostiene che abbia utilizzato, nello specifico, un'espressione tipica del portoghese brasiliano.»
    Alysse non parve particolarmente impressionata da quella novità.
    «L'ho sentito dire anch'io, ma che importanza ha?»
    «Il Piccolo Quattro potrebbe avere svelato la propria nazionalità.»
    «E allora? È Bianco Quattro il pilota, non certo lui... magari non è neanche mai salito su un kart in tutta la sua vita. Dice sempre che da grande non vuole diventare pilota, ma calciatore.»
    «I brasiliani sono letteralmente ossessionati dal calcio. Questa potrebbe essere un'ulteriore prova.»
    «Sì, ma il Piccolo Quattro non è davvero il figlio di Bianco Quattro. Non dice niente sulla nazionalità del suo padre fittizio.»
    «C'è chi sostiene che Bianco Quattro non se lo porterebbe costantemente appresso, se non fosse veramente suo figlio, e che l'unico modo che ha per riuscirci sia proprio quello di fingere che non sia figlio suo. Qualcuno potrebbe incastrarlo, scoprire che...»
    Alysse lo interruppe: «Puoi stare tranquillo, Yannick. Tutti vogliono bene a Bianco Quattro: non vince mai e non sta mai tra le scatole a nessuno. Quando quel tizio che guidava la vettura bianca prima di lui è fuggito via da un giorno all'altro, mentre era in corso la gara della seconda divisione e, di conseguenza, nessuno dei piloti della seconda divisione poteva accorrere per la driver parade e per l'ufficializzazione, perfino il CEO non ha avuto dubbi. Non appena si è accorto che era presente come ospite, in incognito, nel paddock, è corso a chiamarlo e gli ha intimato di mettersi immediatamente al volante. Non tutti godono di quella considerazione. Inoltre il Piccolo Quattro è una fonte inesauribile di consensi. Basterà convincerlo a dire pubblicamente di avere pronunciato quelle parole in onore di qualche calciatore brasiliano suo idolo e tutto si sistemerà.»

    ***

    «Quindi quello che si dice è vero?» domandò Bianco Dieci al suo compagno di squadra. «Il tuo... mhm... presunto figlio è un appassionato di calcio brasiliano?»
    Bianco Quattro rise.
    «Il mio presunto figlio è appassionato del calcio di qualsiasi nazione.» Si rivolse al bambino. «Vero, Piccolo Quattro?»
    «Sì» confermò il Piccolo Quattro, «E voglio diventare un calciatore.»
    «Guarda che i calciatori non sono fighi come noi piloti» ribatté Bianco Dieci. «Noi andiamo in giro costantemente con delle tute magnifiche, dai colori estremamente tamarri, e portando in testa dei caschi.»
    «Le tute dai colori tamarri» replicò Bianco Quattro, «Ce le hanno in altri team. Noi siamo i più sobri.»
    Bianco Dieci fu costretto ad ammettere che il suo compagno di squadra aveva ragione, ma gli ricordò: «A volte, quando la A+ Series aveva degli sponsor particolarmente vistosi, abbiamo comunque portato delle scritte e dei loghi dai colori improbabili anche sulle nostre tute.»
    «Il clou credo che sia stato quella volta in cui la A+ Series promuoveva una serie di documentari sugli animali» osservò Bianco Quattro. «Io e il Piccolo Quattro siamo stati costretti a indossare una tuta che raffigurava un enorme gufo dai colori sgargianti, in Brasile. A te è andata meglio, ti avevano assegnato un animale molto più sobrio, se non sbaglio.»
    «Non me lo ricordo bene. Tutti erano concentrati su di te e sulla tua meravigliosa tuta. Mi ricordo quando sei andato a sbattere sotto la pioggia. Sei sceso dall'auto e, non appena la gente che stava sulle tribune ha visto la tua tuta, hanno iniziato ad acclamarti.»
    «Non me ne parlare. La gente continua a chiamarmi "il gufo di Interlagos" ancora al giorno d'oggi. Se invece di essere uno qualsiasi fossi stato un campione, probabilmente mi avrebbero soppresso molto tempo fa, accusandomi di essere un male per la A+ Series per via della gente che pende dalle mie labbra.»
    Bianco Dieci rabbrividì.
    Ogni volta in cui si parlava, in modo più o meno velato, di incidenti mortali, magari pilotati dall'alto, non poteva fare a meno di pensare a Rosso Ventisette.
    Vedere il suo schianto a Spa Francorchamps lo faceva sentire impotente: si vedeva benissimo che c'era qualcosa che non quadrava, che non si trattava di un incidente "normale". Sulla vettura di Rosso Ventisette era accaduto qualcosa e quel qualcosa era stato fatto avvenire di proposito, nella speranza di liberarsi di quel pilota che, più di ogni altro, sembrava piacere alla gente. Piacere alla gente era un male, quando si riusciva ad essere rilevanti.

    ***

    All'inizio Annika si era illusa di potere attendere.
    Se Boris non le dava notizie di sé, si era detta, l'avrebbe raggiunto in primavera, in Europa, e gli avrebbe chiesto, senza usare mezzi termini, perché avesse deciso di sparire nel nulla.
    Non era stato possibile.
    Era quella la ragione che aveva condotto Annika in Australia.
    Si era procurata un pass per la pitlane dell'Albert Park - non c'era nulla, in fondo, che i soldi non potessero comprare - e nel corso di quel weekend, con un po' di fortuna, sarebbe riuscita a raggiungere suo figlio.
    Doveva convincerlo a liberarsi di quel mondo, se si era fatto così soffocante da non permettergli nemmeno di avere una vita, all'esterno.
    Nessuno sapeva più nulla di lui. Sembrava che Boris non ci fosse più e che di lui fosse rimasto soltanto Argento Trentanove, quel pilota che spesso veniva ridicolizzato perché appariva fuori posto.
    Annika non si sarebbe mai permessa di criticare i suoi risultati. Sapeva dei sacrifici che suo figlio aveva fatto per arrivare ad alto livello, sapeva di quanta determinazione gli era servita, per potersi illudere di essere alla pari dei migliori piloti al mondo...
    La fortuna sarebbe girata dalla sua parte, prima o poi, Annika ne era certa, era solo questione di attesa: quel giorno, a Spa Francorchamps, prima dell'incidente, le era sembrato il momento decisivo.
    Non lo era stato, ma non importava: Annika conosceva suo figlio abbastanza per rendersi conto che gli errori che stava facendo ultimamente non facevano parte della sua natura. Per quella ragione, ne era certa, non sarebbero durati a lungo.

    ***

    Anche con tuta e casco e con l'identità di Argento Novantuno cucita addosso, Yannick faticava a non pensare al suo incontro con Alysse, avvenuto la sera precedente.
    Non avevano parlato degli strani fatti di Spa e Yannick non sapeva dire se fosse un bene o un male.
    Cercò di togliersela dalla testa, di tornare lo stesso cinico Argento Novantuno che era stato pochi minuti prima, durante una delle interviste trasmesse live:
    «Siamo ormai arrivati al giro di boa di questo campionato e tu e Viola Settantasette siete quasi appaiati in cima alla classifica. Tutto lascia pensare che il duello delle scorse stagioni si stia ripetendo tale e quale. Sei d'accordo?»
    «No, non sono d'accordo, perché quest'anno riuscirò a vincere, nonostante le avversità che ritrovo sempre sul mio percorso. Adesso è sbucato fuori un altro stronzo: quel Rosso Trentadue deve essersi messo in testa che il suo scopo è quello di annientarmi, ma sono certo che la scorsa volta in Malesia si sia finalmente rassegnato e che abbia capito che l'unica cosa che può fare è fissarmi il culo. Se Viola Settantasette dovesse vincere anche quest'anno, in cui spesso è finito fuori a causa di errori suoi, sarebbe la dimostrazione che i risultati sono pilotati dall'alto.»
    «Pensi che ci sia una soluzione, per evitare che i campionati vengano pilotati dall'alto?»
    «Una soluzione c'era, ma purtroppo non è stata messa in atto. Inizio a pensare che la morte di Rosso Ventisette sia stata inutile: è vero, era in testa alla classifica, dopo le prime due tappe, ma non sarebbe riuscito a concretizzare un bel nulla. Se al suo posto fosse morto Viola Settantasette, non avrei veri e propri rivali. Purtroppo è vero, muoiono sempre i piloti sbagliati. Non mi rimane altro da fare che augurarmi che, per il bene dello spettacolo, anche Viola Settantasette faccia la stessa fine.»
    «Credo che questa sia la prima volta che un pilota si augura pubblicamente che un suo collega abbia un incidente mortale. La tua affermazione scatenerà sicuramente molte polemiche e...»
    «Scusami se ti interrompo, ma credo di avere il diritto di quello che penso. La morte di Viola Settantasette sarebbe una liberazione per tutti noi. Tutti i piloti desiderano levarselo di torno. L'unico modo per mettere fine ai favoritismi spregiudicati che esistono ancora nei suoi confronti è quello più drastico. L'intera umanità ne verrebbe a guadagnarci.»
    Argento Novantuno si era sentito soddisfatto nel pronunciare quelle parole: finalmente sarebbe tornato sulla cresta dell'onda, dato che simili affermazioni non potevano passare inosservate.
    Quello che non aveva preventivato era l'intromissione del suo compagno di squadra. Argento Trentanove, che da qualche mese, per qualche strano motivo, si era messo a parlare di più del solito, ci tenne a commentare l'accaduto.
    «Ti ho sentito, mentre parlavi di Viola Settantasette.»
    «Mi fa piacere. Invece di concentrarti sui tuoi risultati, preferisci concentrarti sul tuo compagno di squadra.» Quell'idea, tutto sommato, era divertente. «Anch'io, se fossi al posto tuo, preferirei concentrarmi su quello che fanno gli altri, piuttosto che su me stesso, perché mi dispiacerebbe molto pensare costantemente a quanto faccio cagare, ma non c'è motivo per cui tu debba impicciarti o preoccuparti di quello che dico.»
    «Ti sei augurato pubblicamente che Viola Settantasette muoia.»
    «Ci tieni così tanto a quello stronzo?»
    «Non ho detto di tenerci...»
    «Allora di cosa ti lamenti?»
    «Se non te ne sei ancora reso conto, può accadere sul serio... anche a noi.»
    «Sono consapevole dei rischi che corro» replicò Argento Novantuno. «Non li ho mai sottovalutati. Non sto dicendo che i rischi non ci siano. Sto solo dicendo che Viola Settantasette dovrebbe essere sottoposto a rischi maggiori, in modo che ci possiamo sbarazzare di lui.»
    «Giusto» ribatté Argento Trentanove, sprezzante. «Il modo migliore che hai per vincere è sperare che gli altri muoiano. Non sei capace di competere alla pari con loro. Non sei capace di accettare l'idea che possano essere migliori di te.»
    «Non sono migliori di me. Nel caso tu non te ne sia accorto, non sono un perdente come te. Se non altro una volta eri un perdente che se ne stava al posto suo. Per caso sei morto quando ti sei schiantato a Spa e sei stato sostituito da un sosia?» Argento Novantuno ridacchiò. «Che poi, non servirebbe nemmeno un sosia. Servirebbe semplicemente qualcuno con gli occhi del tuo stesso colore e con la stessa forma.» Guardò attraverso la visiera alzata del suo casco. «Mi ricordi qualcuno, anche se non capisco chi. Mi ricordi qualcuno, mentre una volta non mi ricordavi nessuno.»
    «Stai delirando» lo mise a tacere Argento Trentanove. «Pensa a impegnarti seriamente, piuttosto che a queste cazzate. Se non vuoi che Viola Settantasette vinca il mondiale, ti basta soltanto continuare a dare il meglio di te. Hai ragione, non sei un perdente come me, quindi ce la puoi fare. Punta in alto, tu che puoi. Non preoccuparti di presunti favoritismi o di cose del genere. Quello che dici a proposito degli occhi azzurri di Viola Settantasette è assurdo. Anche Bianco Dieci ha gli occhi dello stesso colore, eppure sono passati anni dall'unico mondiale che ha vinto.»
    «Quel mondiale valeva poco e niente.»
    «Un giorno qualcuno dirà lo stesso di quello che hai vinto tu. Non ti piacerebbe se queste opinioni poco gradevoli venissero accantonate una volta per tutte?»
    «Beh, sì...»
    «Allora smettila di dare il cattivo esempio. Non fai altro che dichiarare che questo o quell'altro sono troppo scarsi per stare in questo campionato o per vincere. Là fuori, intanto, ci sono tante pecore che ti ascoltano e che ripetono le stesse cose... solo che anche tu divieni il soggetto, non può toccare sempre agli altri.»
    Argento Novantuno sospirò.
    «E va bene, a Spa hai sbattuto la testa e sei diventato un filosofo. Prima o poi, se ne avrò voglia, rifletterò sui tuoi insegnamenti. Adesso, però, lasciami in pace.»

    ***

    Il tempo a disposizione non era tanto, Annika doveva sfruttarlo al meglio.
    Vide Argento Trentanove, da solo.
    Sapeva che suo figlio non desiderava essere disturbato in quel momento, ma gli andò incontro.
    Argento Trentanove non diede segno di averla riconosciuta e, soltanto quando Annika gli fece un cenno con la mano, le rivolse la parola.
    «Sta cercando me?»
    «Boris» mormorò Annika. «Perché sei sparito?» gli domandò, nella loro lingua natale. «Perché non ti sei più fatto vivo?»
    «Come ha detto?» domandò Argento Trentanove. «La prego, parli in inglese, non capisco.»
    Annika sbuffò.
    «A che gioco stai giocando, Boris?» gli chiese, stavolta in inglese. «Hai ragione, non dovrei essere qui, ma cerca di capirmi... in fondo sono tua madre.»
    Attraverso la visiera alzata, Argento Trentanove la fissò con gli occhi spalancati.
    «Mia madre? No, guardi, si sbaglia. Non sono Boris.»
    «Boris mi ha detto di essere Argento Trentanove. So che sei tu.»
    Il pilota fece un passo indietro.
    «No» mormorò. «No, no, non può essere.» Allungò un braccio. «Vede la mia mano? È la mano di suo figlio, questa?»
    Annika lo ignorò.
    «Boris, non so cosa ti sia successo, non so cosa ti abbiano fatto, ma...»
    Argento Trentanove la interruppe: «Glielo ripeto, non sono Boris. Non so che cosa le abbia detto suo figlio, ma...»
    Si interruppe.
    Ne seguì un silenzio che ad Annika parve interminabile.
    Argento Trentanove si guardò intorno. Non c'era nessuno, nelle immediate vicinanze.
    «Senta, signora, io non dovrei svelarle la mia identità e, di fatto, non lo farò, ma le posso dimostrare che non sono suo figlio.»
    Si slacciò la tuta.
    Annika notò una strana imbottitura.
    «Quella roba a cosa serve?» non poté fare a meno di domandare al pilota.
    Argento Trentanove non rispose.
    Poco dopo la risposta fu ovvia: quell'imbottitura serviva a nascondere le vere forme del suo corpo.
    L'amara verità colpì Annika come una coltellata.
    Il pilota che aveva di fronte non poteva essere suo figlio: Argento Trentanove era una ragazza.

    ***

    «Io sono venuto qui per proporle una soluzione su un piatto d'argento» dichiarò il CEO. «Credo che le converrebbe ascoltarmi, signora Alysse.»
    Tutto iniziò ad assumere un senso.
    Quando aveva assistito allo schianto, sul teleschermo, Alysse si era fatta l'idea che un pilota sconosciuto avesse preso il suo posto al volante della vettura numero 27.
    Non era andata così.
    Al volante c'era proprio lei.
    Il luogo in cui si trovava doveva essere una stanza d'ospedale, ma non una di quelle normali, dove i pazienti non venivano legati al letto e non venivano dovevano accettare proposte di etica discutibile in cambio delle cure di cui necessitavano.
    Doveva avere un'amnesia, quella era la ragione per cui il suo ultimo ricordo ben preciso risaliva al momento in cui Cinquantadue l'aveva avvertita che qualcuno tramava alle sue spalle.
    Per ironia della sorte, aveva avuto ragione: Rosso Ventisette era ufficialmente morto.
    «Mi sta suggerendo» domandò al CEO, «Di non rivelare la verità e di andare a cercare un volante in America o in Giappone?»
    Il CEO scosse la testa.
    «Niente di tutto ciò, Madame. Non ho detto che oggi è stata inscenata la morte di un pilota. Seppure la versione ufficiale sia differente dalla realtà, oggi è davvero morto un pilota. Ha il suo stesso colore di occhi e più o meno la stessa altezza. Con i dovuti accorgimenti, potrà tranquillamente prendere il suo posto.»
    Alysse mormorò: «Argento Trentanove...»
    «Esatto, Argento Trentanove» confermò il CEO, «Ma questo deve rimanere un segreto tra noi due.»
    «Certo. Tutto quello che mi interessa è continuare a gareggiare. Farlo con un numero o con un altro non cambia. Non intendo rischiare la radiazione.»
    «Lei non rischia la radiazione, Madame Alysse» puntualizzò il CEO. «Non è stata lei a perdere il controllo della monoposto, è stata la sua monoposto a diventare incontrollabile. Era necessario che Rosso Ventisette avesse un incidente e che fosse brutto abbastanza da fare temere per la sua vita. Sarebbe un gioco da ragazzi ripetere tutto di nuovo. Stavolta è stata fortunata. La prossima volta non avrà la stessa fortuna.»

    ***

    Argento Trentanove si rese conto subito dell'enormità dell'azione che aveva appena commesso.
    Per tanti anni aveva sfruttato l'anonimato per essere considerata come tutti gli altri, per essere considerata in quanto pilota e non in quanto donna...
    Slacciarsi la tuta di fronte alla donna che si autoproclamava madre di Argento Trentanove aveva fatto crollare il primo lembo di quella maschera che per tanti anni l'aveva protetta.
    Solo in quel momento realizzò che non aveva mai avuto alcuna protezione. L'essere donna era sempre stato del tutto indifferente, questo era vero, ma solo ed esclusivamente perché era un robot come tutti gli altri.
    Il CEO l'aveva fatta immobilizzare, in ospedale.
    Le aveva fatto capire che doveva assumere l'identità di Argento Trentanove, se ci teneva alla propria carriera e alla propria vita.
    L'aveva costretta a mettersi al volante all'Hungaroring, anche se si reggeva a malapena in piedi. Le aveva spiegato con chiarezza che, se non si atteneva alle disposizioni, gli sarebbe costato pochissimo farla morire, stavolta davvero.
    Quando, con orrore, Alysse si era resa conto che quella donna sui cinquant'anni, con abiti dal taglio elegante e un'acconciatura all'ultima moda, era la madre del ragazzo che era stato sepolto come Rosso Ventisette, aveva scelto, inconsciamente, da che parte stare.
    «C'è un locale, qui vicino al circuito» riferì alla donna. «Stasera ci sarà una festa, una di quelle a cui molti di noi partecipano in incognito. Possiamo trovarci là. Le devo parlare di una questione piuttosto seria.»
     
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    Capitolo 15
    Viola e giallo

    L'orario della gara era sempre più vicino, ma non c'era ancora la certezza di riuscire a schivare qualsiasi intervista.
    Viola Settantasette non aveva alcun desiderio di sentirsi interrogare a proposito delle recenti dichiarazioni di Argento Novantuno: secondo il suo avversario, infatti, la sua morte sarebbe stata un bene per il motorsport e, anzi, a citarlo testualmente, anche per tutto il resto del mondo.
    Con il suo compagno di squadra Dodici si era nascosto accanto alle toilette - una buona invenzione, piuttosto pratica non soltanto per chi aveva certi tipi di urgenze, ma anche per chi aveva bisogno di privacy - e stava ascoltando un'invettiva di quest'ultimo in proposito:
    «Argento Novantuno dovrebbe stare attento a quello che dice. Certe dichiarazioni non si possono fare così, a cuore leggero. Quel tale crede di essere superiore a tutto e a tutti, che tutto gli sia concesso...»
    Viola Settantasette si affrettò a interromperlo: «Ehi, calmati, non sei tu quello che secondo lui dovrebbe morire per raggiungere il bene collettivo.»
    «E allora? Stavolta sei tu, domani sono io, dopodomani è qualcun altro ancora... Argento Novantuno non ha alcun rispetto per quelli che sono morti davvero.»
    «Argento Novantuno ama dimostrare di non avere rispetto per nessuno» precisò Viola Settantasette, «E stavolta non ha fatto eccezione. Non è la prima volta che dice qualcosa di un po' troppo fuori dagli schemi, che fa indignare. È la sua formula per il successo. Se non si comportasse così, correrebbe il rischio di sembrare uno qualsiasi.»
    «Ha vinto un titolo. Non è mai stato uno qualsiasi e non lo sarà mai.»
    «Anche Bianco Dieci ha vinto un titolo, ma viene trattato come se fosse il nulla.»
    «È stato molto tempo fa.»
    «Sarà anche stato molto tempo fa, ma si tratta pur sempre di un titolo, non è una cosa da poco. Inoltre, negli ultimi tempi in cui gareggiava nella A+ Series, anche Rosso Sessantasei non veniva considerato un ex campione del mondo.»
    A sentire nominare Rosso Sessantasei, Viola Dodici si infervorò.
    «Hai sentito cos'è successo?»
    «Non saprei, di cosa parli?»
    «In una conferenza stampa del mondiale di rally è stato chiesto a uno dei piloti se i rumour secondo i quali sarebbe stato segretamente Rosso Sessantasei, in passato, sono veri.»
    Viola Settantasette non aveva sentito alcuna notizia del genere, ma era anche vero che non aveva molto tempo a disposizione per seguire il mondiale di rally.
    «Interessante. A chi l'hanno chiesto?»
    «A Kimi Raikkonen.»
    «E lui cos'ha detto?»
    «Che non ha mai sentito parlare di Rosso Sessantasei e che non ha mai seguito la A+ Series.»
    «Quindi tutte le congetture sono svanite nel nulla.»
    «No, affatto. In molti sono convinti che, se Raikkonen ha risposto a quel modo, allora Rosso Sessantasei sia davvero lui.»
    Viola Settantasette fece una mezza risata.
    «Mi sembra un caso simile a quella volta in cui si sollevò un polverone enorme con quel pilota di endurance che venne scambiato per te. Quel tizio con i capelli biondo paglierino, che sembra uscito da una puntata "Baywatch". Com'è che si chiama? Brendon qualcosa...»
    «Ah, Brendon Hartley.»
    «Esatto, proprio quello.»
    «Hartley se la cavò categoricamente, negando di essere me.»
    «Non gli ho mai creduto. Sono certo che tu sia davvero Brendon Hartley in incognito. Anche Giallo Sedici ne è convinto.»
    «Lascia perdere Giallo Sedici. È troppo fuori di testa per essere preso sul serio. Lo sai cosa combinava in seconda divisione?»
    Viola Settantasette ridacchiò.
    «Sì, quando venne promosso nella massima serie festeggiò tracannando champagne con una cannuccia che passava attraverso la visiera del casco.»
    «Ma non dalla bottiglia. Versò dello champagne in una delle sue scarpe e bevve con la cannuccia dalla scarpa. Tutto ciò è disgustoso.»
    «È più disgustoso il fatto che poi offrì da bere a quel modo anche a gente di passaggio. Mi sorprende che non sia scoppiata un'epidemia di colera. Non...» Viola Settantasette si interruppe. «Oh, guarda, c'è proprio Giallo Sedici che viene verso di noi.»
    Fece un cenno di saluto al collega, che si avvicinò.
    Le interazioni tra piloti di team diversi erano severamente vietate, ma Sedici non aveva mai preso quella regola troppo sul serio. Gli era sempre andata bene, dato che, fino a quel momento, non aveva mai dovuto affrontare alcuna conseguenza.
    «Stavamo parlando di te» lo informò, «Di quella volta in cui cercasti di avvelenare mezzo paddock distribuendo champagne che aveva il retrogusto dei tuoi piedi.»
    Giallo Sedici rise in modo sguaiato.
    «Ripeterò tutto quando accadrà qualcosa di grandioso.»
    «Del tipo?»
    «Quando vincerò il mondiale.»
    Viola Dodici obiettò: «Mi pare che la vittoria del mondiale sia ancora molto lontana.»
    Giallo Sedici annuì.
    «Anni luce, direi. Non ha importanza, ci sono anche altre cose degne di essere festeggiate. Se un giorno il mio compagno di squadra dovesse essere uno dei primi tre piloti a tagliare il traguardo di una tappa, potrei prendere in considerazione l'idea. Ve ne siete accorti che Giallo Sessantuno non ha mai chiuso tra i primi tre una tappa? Se esistessero ancora i vecchi gran premi, sarebbe probabilmente il pilota con il maggior numero di partecipazioni a non essere mai salito sul podio.»
    Viola Settantadue lo ammonì: «Non è bello ridere delle disgrazie altrui.»
    Giallo Sedici si difese: «Non ho mai riso delle disgrazie del mio compagno di squadra. È un tipo piuttosto divertente, mi trovo bene con lui. Se esistesse ancora il concetto di podio e dovessi scegliere con quali piloti salirci, uno di loro sarebbe senz'altro Giallo Sessantuno. Se lo merita. Finora l'apice che ha raggiunto è stato ottenere una pole position, anni fa, dopo il test prestagionale e il sondaggio. Purtroppo non è bastato a concretizzare un buon risultato. Mi è dispiaciuto molto per lui.»
    «All'epoca non eri ancora arrivato in A+. Non eravate ancora compagni di squadra.»
    «Si tratta di dispiacere retroattivo, anche perché all'epoca non sapevamo che Sessantuno fosse destinato a non avere mai neanche la più piccola gioia.»
    «Mai dire mai. Credo che sia ancora giovane. Ha ancora tanto tempo a disposizione.»
    «A meno che non gli venga in testa l'idea di affermare che le teorie del complotto sono vere, in tal caso si troverebbe sbattuto fuori a calci nel culo senza neanche fare in tempo a rendersene conto.»
    Viola Dodici intervenne: «Ho sentito Rosso Quindici e Rosso Trentadue che parlavano di teorie del complotto, appena ieri. Quindici stava dicendo a Trentadue che non vale la pena di rischiare per il passato. Da parte sua, sosteneva che non farà nulla che possa metterlo in pericolo, almeno finché sarà in A+ Series. Forse è vero che intende reinventarsi negli Stati Uniti.»
    Viola Settantasette decretò: «Non diventerebbe mai famoso tanto quanto Cinquantadue.»
    «Non penso che gli interessi diventare famoso tanto quanto Cinquantadue» obiettò Viola Dodici. «Con tutta probabilità gli basta semplicemente l'idea di potere usare il proprio nome e cognome e di metterci la propria vera immagine. Deve essere uno di quelli che pensano costantemente alle occasioni sprecate: sai quante ragazze potrebbe rimorchiare, se potesse presentarsi per quello che è davvero?»
    «Povero Quindici, non devi avere un'opinione molto elevata di lui.»
    «Ti sbagli. Non tutti sono disposti a vivere nell'ombra. Rosso Quindici è uno di quelli che ai vecchi tempi si sarebbero sentiti molto meglio.»
    «A proposito» intervenne Giallo Sedici, «Se hai sentito Trentadue affermare di credere a certe teorie, il tuo dovere dovrebbe essere quello di denunciarlo ai piani alti e farlo radiare.»
    Viola Dodici spalancò gli occhi.
    «Perché dovrei?»
    «Perché è quella la fine che devono fare i sovversivi... o almeno così dicono loro.»
    «Mi conosci. Sai bene che, per quanto occuparmi del passato non sia la mia priorità, non metterei mai nella merda qualcuno solo perché ha affermato l'ovvio. Mi sembrerebbe molto squallido fare qualcosa che possa mettere fine alla carriera di Rosso Trentadue solo per il gusto di farlo o, peggio ancora, per seguire le regole imposte da gente che ci tratta come se fossimo dei fantocci.»
    «Questa è una dichiarazione pesante. Anche tu saresti da denuncia.»
    «E allora» replicò Viola Dodici, seccamente, «Perché non vai a riferire quello che ho appena detto? Sono certo che quelli che contano non resterebbero indifferenti.»
    «Non sono un coglione come Argento Novantuno. Uno come lui, lo farebbe di certo.»
    «Concordo sul fatto che Argento Novantuno sia un coglione.»
    «Ho sentito la sua intervista. È da prendere a calci nel culo. Settantasette, perché non l'hai fatto?»
    Viola Settantasette non avrebbe disdegnato mettere in pratica ciò che Giallo Sedici gli suggeriva, ma era convinto che il suo collega stesse travisando la situazione.
    «Quello di Argento Novantuno è tutto un bluff.»
    «Non ne sono così convinto. Mi sembra che pensi davvero che tutto gli sia dovuto e che chi sta sulla sua strada debba morire.»
    «Una volta che inizi a recitare una parte, poi ti tocca continuare a recitare quella stessa parte per anni.»
    «Magari, se qualcuno l'avesse preso a calci nel culo molto tempo fa» ribadì Giallo Sedici, «Come meritava, avrebbe preso la saggia decisione di cambiare rotta.»
    «Me ne frego di quello che dice Argento Novantuno» precisò Viola Settantasette. «Per quanto mi riguarda, può raccontare a chiunque di volermi morto. Finché sarò in vita, non sarà un mio problema... e dopo, beh, neanche dopo, immagino.»

    ***

    Argento Novantuno scelse l'inquadratura migliore, prima di scattare la fotografia.
    Dei tre piloti che parlavano nei pressi della toilette, l'unico facilmente riconoscibile era Viola Settantasette.
    Il suo compagno di squadra rimaneva nascosto dietro al ragazzo vestito di giallo.
    Quest'ultimo era ripreso da dietro, il numero di gara non si leggeva da nessuna parte, né sulla tuta né sul casco.
    Se era vero che tutti e tre rischiavano - o andavano incontro quasi sicuramente, qualora fossero stati colti sul fatto - di essere penalizzati con una tappa di stop, dall'altro lato ad Argento Novantuno non interessava affatto che due di loro tre andassero incontro a quel destino.
    Né il secondo pilota in tuta verde né quello in tuta gialla avevano a che vedere con lui: erano due presenze di contorno, che non lo disturbavano in alcun modo.
    Per Viola Settantasette il discorso era diverso.
    Argento Novantuno sapeva che non si sarebbe levato di torno anzitempo e che, anzi, gli sarebbe stato con il fiato sul collo fino al termine della stagione. Aveva vinto tre mondiali consecutivi e non avrebbe disdegnato l'idea di vincerne un quarto. Argento Novantuno era disposto a tutto pur di far sì che le cose cambiassero. Dopo avere vinto un campionato, si era accontentato di dovere arrivare secondo per tre anni di seguito e non avrebbe tollerato un'ulteriore sconfitta.
    Far squalificare il suo avversario dall'evento australiano poteva significare percorrere settantacinque giri mentre Settantasette non ne percorreva nemmeno uno: poteva essere molto rilevante, alla fine della stagione, una simile decisione.
    Argento Novantuno non ebbe dubbi: la fotografia che aveva scattato doveva essere utilizzata subito, per far sì che ci fosse la certezza dell'esclusione di Viola Settantasette.

    ***

    «Tutto ciò è ingiusto» dichiarò Viola Dodici. «Perché non hai fatto i nostri nomi? Eravamo in tre.»
    Viola Settantasette scosse la testa e rimase fermo sul suo punto di vista.
    «Non metterò nella merda né te né Giallo Sedici. La nostra era una conversazione innocente.»
    «Ai piani alti non la pensano così» replicò Dodici. «Se sei colpevole tu, allora siamo colpevoli anche tutti noi. Dobbiamo...»
    Viola Settantasette interruppe quell'affermazione sul nascere.
    «Non dovete fare niente, se non fingere che non sia accaduto nulla. Io rimarrò qui a guardarvi dai box e spererò che, entrambi, possiate metterlo in quel posto ad Argento Novantuno. Non ho dubbi che ci sia lui, dietro a tutto questo.»
    Viola Dodici azzardò: «Rosso Trentadue potrebbe essere un altro indiziato. In fondo è arrivato con tre tappe di ritardo e ha un grosso gap da colmare, sia nei tuoi confronti, sia nei confronti di Argento Novantuno. Potrebbe avere cercato di sbarazzarsi di uno dei suoi avversari, stavolta, e sperare che gli capiti un colpo di fortuna simile anche con l'altro, prima o poi.»
    «No, non può essere così. Rosso Trentadue non mi sembra stronzo e arrivista al punto tale da commettere un'azione del genere. Mi sembra molto più nello stile di Argento Novantuno. Dopotutto non sono morto, quindi doveva inventarsi qualcosa...»
    Viola Dodici proferì in un gesto scaramantico piuttosto volgare.
    «Speriamo che non ci siano morti.»
    «Lo spero anch'io, ma sono abbastanza sicuro: è troppo presto. Un altro incidente mortale distoglierebbe l'attenzione da Rosso Ventisette. Se capitasse, almeno avremmo la magra consolazione di sapere che non è stato pilotato dall'alto.»
    «Vuoi dire che anche gli incidenti mortali sono pilotati dall'alto?»
    «Temo proprio di sì. L'ultimo incidente mortale "genuino" è quello che accadde il 9 aprile 2000... anche se non è veramente accaduto il 9 aprile 2000.»

    ***

    Le riprese erano quasi finite.
    Alex era già passato dalla tuta bianca e blu a quella giallo limone.
    Stava per tornare sul set, quando un'addetta al make-up attirò la sua attenzione.
    «Dove credi di andare?»
    «Mi stanno aspettando per le ultime inquadrature.»
    «Serve dell'altro talco.»
    «Saranno da lontano.»
    «Appunto. Ti ricordo che sono le riprese per gli highlight dell'ultima stagione. I tuoi capelli devono sembrare un po' più grigi di prima.»
    Alex sospirò.
    «Ne farei volentieri anche a meno. Questa porcheria fa un odore troppo forte.»
    «È talco. È profumato.»
    «L'ultima volta in cui mi è stato messo del talco tra i capelli per ingrigirli è stato per una recita scolastica alle elementari. Facevo la parte di un anziano. Non pensavo che una cosa del genere mi sarebbe accaduta mai più.»
    «Immagino che tu sia stato pagato profumatamente.»
    «Sì.»
    «Ne vale la pena. Sei meglio di tutti gli altri. Quelli dovevano essere inquadrati molto da lontano, per sembrare credibili.»
    «Anch'io vengo inquadrato da lontano.»
    «Non tanto quanto loro.»
    «Quindi forse mia moglie mi riconoscerà, non appena le farò vedere i filmati» osservò Alex. «Lo spero. Mi auguro che si renda conto che mi è stato aumentato lo stipendio per qualcosa di innocente.»
    La truccatrice si mordicchiò un labbro.
    «Sicuro?»
    «Di cosa?»
    «Del fatto che quello che fai sia completamente innocente?»
    «Certo che lo è!» ribatté Alex. «Devo solo fare la comparsa, farmi inquadrare da dietro, fingendo di essere un pilota del passato. L'hanno fatto anche altri prima di me. Non c'è niente di male.»
    «Magari ti converrebbe non raccontarlo a tua moglie» gli suggerì la truccatrice. «Quello che si fa per la A+ Series, è meglio non divulgarlo.»
    Alex strabuzzò gli occhi.
    «Ma... Alysse è mia moglie! Sa anche quante volte mi viene da ruttare quando bevo la Coca Cola, non potrei mai nasconderle una cosa del genere!»
    «Anche mio marito sa tutto di me, se ti può consolare» replicò l'addetta al make-up. «Tutto, tranne quello che faccio al lavoro... anche se quello che faccio io è mille volte più innocente di quello che fai tu.»
    «Stai esagerando.»
    «No, non sto esagerando. Stai interpretando la parte di un pilota che, il giorno della sua presunta morte, era già morto da anni. Stai aiutando la A+ Series a falsificare la storia dell'automobilismo.»
    «Ci sono cose più gravi che falsificare la storia dell'automobilismo, non credi?»
    «Beh, sì. A me, in realtà, non interessa niente di quando sia morto questo o quell'altro pilota. Sono arrivata a lavorare per la A+ Series per caso. Prima lavoravo per il teatro. Non mi importa né di una cosa né dell'altra: è sempre stata l'estetica ad interessarmi.»
    «Ecco, appunto. Io, di fatto, sono il segretario del CEO. Se fossi il segretario dell'amministratore delegato di un'azienda che produce carne in scatola non sarei obbligato a provare un interesse morboso per la carne in scatola. Allo stesso modo posso lavorare per la A+ Series senza che i campionati di automobilismo siano la mia principale ragione di vita.»
    «Non è la tua ragione di vita, appunto, che bisogno hai di parlarne con tua moglie?»
    «Semplicemente mi piace parlare con mia moglie di quello che faccio. Anche Alysse mi parla di quello che fa lei.»

    ***

    Come da accordi con il team, Viola Settantasette si preoccupò di rimanere, in tuta e casco, a disposizione delle telecamere. Ogni volta in cui si accorgeva di essere ripreso, alzava lo sguardo verso l'obiettivo, per mettere in mostra gli occhi azzurri brillanti.
    Naturalmente la squadra non aveva apprezzato minimamente il fatto che fosse stato colto in flagrante mentre conversava con un pilota di un altro team e il messaggio di fondo gli era arrivato chiaro e cristallino: per colpa sua, quel giorno non avrebbe percorso alcun giro, invece dei previsti settantacinque, pertanto avrebbe dovuto impegnarsi personalmente per ridurre il gap dai suoi avversari, nei mesi e nelle tappe a venire.
    Viola Settantasette credeva solo limitatamente nei consensi, ma apparire come una vittima del sistema era un buon modo per ottenerne, quindi non poteva sottrarsi agli ordini che gli erano stati impartiti.
    Nel frattempo cercava di non perdersi nulla dell'azione che avveniva in pista: non gli capitava quasi mai di assistere a una tappa come spettatore esterno, quindi intendeva sfruttare quell'occasione.
    "Ci farò l'abitudine, in vista della prossima stagione."
    Viola Settantasette intendeva ritirarsi dalle competizioni al termine della stagione, qualunque fosse il risultato del campionato: aveva già vinto tre titoli, non aveva bisogno di vincerne un quarto prima di appendere il casco al chiodo e di rivelare al mondo la propria vera identità.
    Sarebbe stata una sorpresa per tutti.
    O meglio, sarebbero state due grosse sorprese, una costituita dal suo ritiro, l'altra relativa alla sua identità.
    La gara andò bene, secondo il suo punto di vista: i suoi principali avversari completarono appena otto giri. A quel punto Rosso Trentadue affiancò Argento Novantuno.
    Finì male.
    Strisciarono l'uno contro l'altro, poi finirono in una via di fuga.
    Argento Novantuno, con la sua solita "classe", si mise a inveire contro l'asiatico.
    "Ciò non è positivo" realizzò Viola Settantasette. "Comportarsi in modo esagerato e poco elegante è il modo migliore per guadagnare popolarità, quindi altro che i miei occhi azzurri..."
    Sperò che Argento Novantuno tornasse in sé, ma il principale avversario non era il tipo da fare le cose a metà.
    Si mise a strattonare Rosso Trentadue, che reagì spingendolo a terra.
    Viola Settantasette non poté fare a meno di ridere: quando Argento Novantuno si alzò in piedi, Rosso Trentadue si era ormai allontanato con aria indifferente.

    ***

    Argento Novantuno rilasciò alcune interviste subito dopo il fattaccio. Rosso Trentadue, invece, venne lungamente inquadrato nel box del proprio team. Era chiaro che non avrebbe parlato fino al termine della tappa.
    Argento Novantuno andò a spogliarsi. Si fece una doccia e, quando ne uscì nei panni di Yannick Leroy, iniziò a delineare il suo piano d'azione.
    Aveva avuto un'occasione formidabile per allungare in classifica nei confronti di Viola Settantasette, ma si era ritrovato a percorrere appena otto giri, prima di essere speronato dall'ennesimo rookie che aveva scelto di mettersi sulla sua strada. Non solo, quel rookie avrebbe potuto rendersi pericoloso anche in ottica campionato, un giorno o l'altro, ed era un pensiero che Yannick non riusciva a tollerare.
    Aveva solo un modo per sbarazzarsi di lui e intendeva metterlo in pratica.
    Con al collo un pass che lo identificava come giornalista - sapeva che si trattava di un'abitudine abbastanza diffusa, tra i piloti, ma nessuno avrebbe saputo identificare di preciso nessuno di loro - rimase in giro per la pitlane, in attesa che Rosso Trentadue si degnasse di interagire con la stampa.
    Rimase in disparte a tenerlo d'occhio. Se avesse seguito passo passo i suoi movimenti, forse sarebbe riuscito a vedere dove si sarebbe diretto, al momento di smettere di essere un anonimo pilota e di tornare a vivere la sua vita al di fuori dei circuiti.
    Rosso Trentadue si era messo contro di lui e meritava di pagarne le conseguenze.
    La conseguenza del caso era quella di essere identificato e smascherato: Yannick intendeva scoprire chi fosse e divulgare la sua identità, per farlo radiare dalla A+ Series.
    Non era un'impresa facile, ma dentro di sé era certo che ci sarebbe riuscito. Il tentativo, infatti, diede i suoi frutti, anche se solo a metà: Yannick riuscì a intravedere da dietro qualcuno che, con tutta probabilità, era Rosso Trentadue. Aveva i capelli nerissimi, dritti sulla testa, con le punte tinte di blu.
    Yannick decise che avrebbe scoperto chi era, a qualunque prezzo.
     
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    Sto leggendo la storia tutta d'un fiato, e devo dire: è davvero affascinante.
    Mi ricorda una di quelle distopie dove si fa credere al pubblico/popolo di avere un peso, quando in realtà ruota tutto attorno al business e ai trend del momento. Complimenti per come hai rappresentato i CEO della A+ Series: senza scrupoli e disposti a tutto per raggiungere i propri obiettivi, esattamente in linea con il racconto e le sue tematiche.
    Sinceramente, se si prospettasse una serie con piloti con pseudonimi e quel sistema di punteggio demenziale mi dirigerei da appassionato verso altre serie, oppure mi darei al giardinaggio. :lol:
     
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    Sono contenta che la storia ti piaccia e che l'effetto che intendevo dare sia passato. Sulla questione del pubblico che crede di contare, non ho dovuto fare nemmeno un grosso sforzo di immaginazione, seppure la F1 non sia stata soppiantata dalla A+ quel tipo di pubblico secondo me già esiste.
    Credo che in tal caso faresti bene a seguire altre categorie. :lol:
     
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 19/6/2019, 22:53) 
    Sono contenta che la storia ti piaccia e che l'effetto che intendevo dare sia passato. Sulla questione del pubblico che crede di contare, non ho dovuto fare nemmeno un grosso sforzo di immaginazione, seppure la F1 non sia stata soppiantata dalla A+ quel tipo di pubblico secondo me già esiste.
    Credo che in tal caso faresti bene a seguire altre categorie. :lol:

    Però il giardinaggio mi affascina altrettanto. Potrei dedicarmi alla cura delle piante mentre seguo l'Indycar. Sarebbe sicuramente meglio di una serie che basa il proprio punteggio sui giri percorsi dai singoli piloti. :lol:
     
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    Potrei dedicarmi alla cura delle piante mentre seguo l'Indycar.

    Non coltivare papaye...
     
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 19/6/2019, 23:08) 
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    Potrei dedicarmi alla cura delle piante mentre seguo l'Indycar.

    Non coltivare papaye...

    Terrò a mente il tuo consiglio.
     
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    Meno male. :lol:
     
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    Ho letto i capitoli che mi mancavano (questa storia mi ha proprio preso).
    Sono costernato da come ci siano piloti privi di qualsiasi scrupolo come Yannick/Argento Novantuno, che si augura addirittura la morte dei suoi rivali pur di vincere, oppure si mette a complottare alle loro spalle. Ti fa capire come questo concetto di campionato tra piloti anonimi alla lunga porti alla disumanizzazione di molti di loro, trasformandoli in persone prive di scrupoli. Mi fa piacere vedere che, comunque, ne restino ancora tanti con una morale (come i colleghi di Viola Settantasette che volevano prendersi la loro parte di "colpa").
    La vicenda di Argento Trentanove e di Alysse sta avendo risvolti davvero inquietanti. Ti fa capire la vera natura di questa "serie" motoristica.
    Questa FF mi sta piacendo davvero tanto, spero proprio che continui a pubblicarla, prima o poi.
    Alla prossima! :)
     
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    Sono contenta dell'effetto che ti ha fatto e del fatto che i capitoli siano (presumo) scorrevoli da leggere.

    Parlando di questo campionato... Sì, ha l'obiettivo di "disumanizzare" i piloti che vi prendono parte e in certi casi ci sta riuscendo... anche se in futuro forse qualcuno potrà riservare delle sorprese positive.

    Hai ragione, dovrei continuare a postare.
    Lo farò presto. :wub:
     
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 20/6/2019, 12:39) 
    Sono contenta dell'effetto che ti ha fatto e del fatto che i capitoli siano (presumo) scorrevoli da leggere.

    Parlando di questo campionato... Sì, ha l'obiettivo di "disumanizzare" i piloti che vi prendono parte e in certi casi ci sta riuscendo... anche se in futuro forse qualcuno potrà riservare delle sorprese positive.

    Hai ragione, dovrei continuare a postare.
    Lo farò presto. :wub:

    Inizialmente la storia mi pareva un po' pesante da leggere, ma presumo sia normale, viste le tematiche trattate e la complessità del tutto.
    Sono felice che la continuerai! Non vedo l'ora! :woot:
     
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    In realtà la storia è già continuata e finita, ero solo ferma nel postarla (su wattpad l'ho già postata tutta) anche perché ultimamente non sono stata al pc molto in questi ultimi tempi e sono più le volte in cui entro sul forum dal cellulare.
     
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    Capitolo 16
    L’altro lembo della maschera


    Per tanti anni la storia si era ripetuta, sempre allo stesso modo: c'erano il Giappone e l'Australia, poi calava il sipario e il mondiale terminava.
    Non era sempre stato così, ma era facile abituarsi. C'era chi affermava che un vero campionato non poteva non finire ad Adelaide e, una volta che Adelaide era stata messa da parte e rimpiazzata dall'Albert Park all'inizio della stagione, la stessa persona avrebbe potuto affermare senza mezzi termini che, se Adelaide non c'era più, il mondiale poteva tranquillamente terminare a Suzuka. Dopotutto non era forse a Suzuka che spesso erano stati assegnati, in anticipo di un gran premio, diversi titoli mondiali?
    Il Giappone c'era ancora, ma c'era anche la Spagna.
    Il mondiale stava finendo e sarebbe finito con il gran premio d'Europa, un gran premio d'Europa che consegnava al mondo un'amara realtà: per quanto a volte maturasse negli appassionati l'illusione che un pilota potesse continuare a vincere per sempre, il concetto di "per sempre" non esisteva nella vita e, ancora meno, esisteva nel motorsport.
    Il campione del mondo in carica, vincitore di sei titoli mondiali, gli ultimi tre tutti di seguito, uno dietro l'altro, non sarebbe stato uno dei due contendenti al titolo.
    Non era chiaro che cosa fosse accaduto, esattamente.
    Ad un tratto il peso dei suoi trentasette anni si era fatto sentire, anche se sembrava rimanere aggrappato all'illusione che non ci fosse un dopo.
    L'amara realtà sarebbe stata digerita molto in fretta: in tanti affermavano, giorno dopo giorno, che la Formula 1 di un tempo non esisteva più.
    Era vero, non c'era più la Formula 1 del passato, ma c'era quella del presente ed era quella del presente che molti desideravano. Le lamentele facevano parte del gioco: ci voleva qualcosa di cui discutere nei bar, nelle mense aziendali e, a volte, anche ai pranzi di famiglia.
    In tanti avrebbero scoperto che non importava poi così tanto, se il campione del mondo in carica era ormai sorpassato e non c'era più nulla che lo tenesse aggrappato alla lotta per il titolo.
    Era fuori dai giochi, ma altri due piloti non lo erano affatto: erano molto più giovani e, seppure entrambi dessero soltanto l'idea di essere delle comparse, era probabile che si sentisse parlare ancora di loro in futuro.
    La pole position era andata a quello che appariva quasi come un enfant prodige. Non era esattamente un ragazzino e prima di arrivare in Formula 1 non aveva corso esattamente in un campionato di poca importanza, ma gli europei non si rendevano conto di che cosa significasse per un pilota vincere la Cinquecento Miglia di Indianapolis.
    Accanto a lui sarebbe partito il suo sfidante, che a volte, in passato, aveva dato prova di potere contare qualcosa, ma rimaneva sempre e comunque solo una comparsa. Aveva realizzato lo stesso identico tempo del pole-man, facendo urlare per lo stupore un'ampia distesa di telecronisti, in giro per il mondo. Gli era stata assegnata la seconda casella della griglia di partenza perché non era stato il primo ad ottenere quel tempo... e curiosamente non era stato nemmeno l'ultimo.
    Sulla terza casella della griglia di partenza sarebbe partito proprio il campione del mondo in carica: compagno di squadra del passato vincitore della Cinquecento Miglia, l'anno precedente non aveva avuto troppi problemi a contenere il suo giovane ed esuberante compagno di squadra dai capelli decolorati, ma ogni stagione era a sé e, in quella dei suoi trentasette anni, non aveva scritto lo stesso tipo di storia che si era vista nel corso degli anni precedenti.
    La gara stava per prendere il via.
    Un ennesimo capitolo di una verità scolpita sotto gli occhi di tutto si sarebbe concretizzata.

    ***

    Alysse si guardò intorno.
    Cercò di togliersi dalla testa il review che aveva visto in attesa che giungesse la sera, ma fu più complicato del previsto.
    Da quando il suo inconscio le aveva aperto gli occhi, in ospedale a Spa, aveva visto gli stessi filmati tante volte, notando sempre di più quello che le era sfuggito per tanto tempo.
    Alex girato di spalle.
    Alex girato di profilo.
    Alex sempre a distanza.
    Non veniva mai inquadrato da vicino, perché in quei filmati non era Alex.
    Indossava la tuta di un sei volte campione del mondo, interpretando il ruolo di quel sei volte campione del mondo ogni volta in cui sembrava assurdo che non esistesse alcuna sua inquadratura.
    Non bisognava destare sospetti.
    Nessuno avrebbe sospettato: gli altri non conoscevano Alex, o almeno non lo conoscevano bene come lei, che era stata sua moglie.
    I truccatori avevano fatto un buon lavoro, Alex aveva interpretato magistralmente la propria parte.
    L'aveva fatto per soldi.
    Aveva fatto quello che avrebbe fatto chiunque altro.
    Per Alex, non c'era niente che non andasse in quell'incarico. Per chi gliel'aveva affidato, invece, c'era molto che non funzionasse: Alysse non aveva dubbi, suo marito doveva avere palesato l'intenzione di parlarne con qualcuno, invece di tenere tutto per sé.
    "L'hanno ucciso per quello."
    Se non altro, realizzò, c'era una ragione: Boris, il figlio della donna che l'aveva avvicinata quella mattina, invece, era stato eliminato per semplici questioni di spettacolo, senza che la sua esistenza fosse di disturbo per nessuno.
    La signora russa la aspettava, seduta ad un tavolo.
    Alysse avrebbe potuto attendere secoli, prima di raggiungerla, senza che se ne accorgesse: non aveva la più pallida idea di quale fosse il suo aspetto.
    Fu tentata di tornare indietro.
    Realizzò che non poteva.
    Per quanto fosse un compito ingrato, doveva comunicare a quella donna che il vero Argento Trentanove era morto da quasi quattro mesi.

    ***

    Le due vetture vennero a contatto.
    Accadde all'improvviso, quando quella blu affiancò quella rossa.
    Accadde all'improvviso e la vettura rossa si impantanò tra la sabbia della curva Dry Sack.
    Quel giorno il pilota che due anni prima aveva vinto a Indianapolis sarebbe diventato campione del mondo di Formula 1.
    Il suo compagno di squadra, ormai, stava nell'ombra.
    Presto anche il team per il quale gareggiavano sarebbe precipitato nell'ombra.
    Colui che in passato era stato un giovane combinaguai al volante di una vettura bianca e rossa e aveva innescato una collisione multipla alla partenza del gran premio di Germania a Hockenheim era diventato un altro pilota: di lì a poche decine di minuti avrebbe conquistato la sua prima vittoria nella massima serie.
    Nei due anni a venire avrebbe vinto due mondiali.
    Nessuno avrebbe mai saputo dire se potesse vincerne anche un terzo: era destinato a ritrovarsi in lotta per il titolo anche al momento del disastro di Monza, in un campionato che non sarebbe mai terminato.
    Né di lui né di tutti gli altri, compreso il passato vincitore della Cinquecento Miglia, compreso lo sfidante a bordo della vettura rossa, si sarebbe saputo nemmeno se erano vivi o se erano morti.
    Soltanto il sei volte campione del mondo era destinato ad essere circondato dalle certezze: non sarebbe vissuto abbastanza da assistere al disastro di Monza o da finirvi coinvolto.

    ***

    Dopo Alex in tuta bianca e blu era venuto Alex in tuta gialla.
    Sullo sfondo c'era una monoposto color limone, un effetto speciale, per il review sugli ultimi anni di storia del più vincente pilota di tutti i tempi.
    D'altronde non potevano mancare i filmati del giorno in cui aveva ottenuto una storica pole position al volante di una Minardi.
    Nessuno avrebbe mai potuto ipotizzare che accadesse qualcosa del genere.
    "Infatti" ricordò Alysse, "non è mai successo."
    Mise da parte Alex e raggiunse la madre del vero Argento Trentanove.
    «Buonasera» la salutò. «Sono la persona che stava aspettando.»
    «Argento Trentanove?» azzardò la madre del defunto pilota.
    «Sì. Posso sedermi?»
    «Certo.»
    Alysse si accomodò.
    «Voglio essere sincera con lei, fino in fondo. Per questo le dirò il mio nome. Mi chiamo Alysse Montanari.»
    «Italiana?»
    «Da parte di padre. Ho nazionalità francese, come mia madre.»
    «Perché mi ha detto il suo nome?»
    «Perché sento che posso fidarmi di lei e voglio che anche lei si fidi di me. Quello che sto per dirle non le farà piacere, ma immagino che stia iniziando a intuire.»
    «Mio figlio è morto, vero?»
    Alysse non si era aspettata che potesse essere così diretta.
    «Temo di sì.»
    Le parole le uscirono una dopo l'altra, mentre le raccontava di essere stata Rosso Ventisette e di come la morte di quest'ultimo fosse stata inscenata sfruttando la vera morte di un pilota.
    La madre del vero Argento Trentanove la ascoltò in silenzio.
    Passò un po', prima che parlasse.
    «Tutto questo è pazzesco, non trova?»
    Alysse asserì: «Sarebbe pazzesco anche per me, se non sapessi fino a che punto possono spingersi. Mio marito era il segretario del CEO. Fu ucciso cinque anni fa, perché non mi raccontasse di avere interpretato una piccola parte in un filmato. Aveva fatto soltanto la comparsa. E sa qual è la cosa peggiore?»
    «Perché?» replicò la madre di Boris, «Per caso ce n'è una peggiore delle altre?»
    «Sì, che se nessuno fa nulla moriranno anche tanti altri.»
    «C'è qualcosa che si possa fare?»
    «Non lo so. Io no, ho le mani legate.»
    «Certo, immagino che sia stata minacciata di essere radiata o qualcosa del genere. Boris diceva sempre che era un rischio concreto, che i piloti non smettono mai di correre.»
    «No, non sono stata minacciata di essere radiata» le confidò Alysse. «Sono stata minacciata di morte... e quelle minacce le prendo sul serio. Ci vuole qualcuno che, dall'esterno, possa prendersi il lusso di raccontare come stanno le cose.»
    «Quindi ha pensato a me.»
    «Sì, ho pensato a lei. Non vuole che il mondo sappia cos'è successo veramente a suo figlio?»

    ***

    Ryuji vide Alysse, ma la ragazza non si accorse di lui.
    Provò a salutarla con un cenno della mano, ma gli sembrò di essere ignorato.
    Non se ne preoccupò: chi era Alysse, in fondo, per lui? Poco più di una sconosciuta, che aveva incontrato da poco e alla quale aveva fatto credere di essere uno degli articolisti di un sito web giapponese sulla A+ Series.
    Passò oltre, lasciando che la ragazza continuasse la sua fitta conversazione con una donna che doveva essere vicina ai cinquanta. Sembrava molto coinvolta e Ryuji si ritrovò a sperare che non stesse pianificando di rovinare la carriera di qualche pilota rivelandone l'identità. D'altronde poteva aspettarsi di tutto.
    Il suo cellulare si mise a squillare, distraendolo.
    Lo sentì a malapena, nel caos.
    Rispose, scoprendo che si trattava di qualcosa di poco importante. Tuttavia, nella confusione, faticava a sentire la voce del suo interlocutore.
    Si diresse verso l'anti-bagno, che gli sembrava l'unico posto in cui una conversazione telefonica potesse essere portata avanti.
    Fu breve e indolore. Nel giro di due minuti si liberò dello scocciatore.
    Stava per girarsi e andare fuori, quando qualcuno lo assalì alle sue spalle.
    Ryuji si sentì scagliare in avanti e andò a impattare contro al lavandino. Lo colpì di striscio con la fronte, prima di ritrovarsi a terra.
    Avvertì distintamente in bocca il sapore metallico del sangue e si domandò quali potessero essere le conseguenze, se avesse sbattuto contro al lavandino direttamente con la testa.
    «Scoprirò chi sei, Trentadue» sibilò la voce del suo aggressore. «Pagherai per quello che hai fatto. Ti farò radiare.»
    Per un attimo Ryuji rimase interdetto. Non si aspettava di sentire qualcuno rivolgersi a lui con il suo numero di gara, ma soprattutto non si aspettava di sentire proprio quella voce.
    Si alzò, aggrappandosi al lavandino.
    «Di cosa parli?»
    L'altro ribatté, sprezzante: «Sai benissimo di cosa parlo, Trentadue.»
    Ryuji avrebbe voluto replicare che non lo sapeva affatto, ma si limitò a girarsi.
    Yannick Leroy spalancò gli occhi, come se avesse appena visto un fantasma.
    «Tu?!» esclamò. «Da quanto tempo sai che...»
    Yannick si interruppe, sembrava che avesse perso la parola o che non volesse pronunciare il resto della domanda.
    Ryuji finse di capire.
    «Da tanto tempo.»
    «Non osare riferirlo a nessuno» gli intimò Yannick, «Altrimenti ti puoi considerare finito.»
    «Il mio silenzio in cambio del tuo?» suggerì. «Credo che sia la tua unica possibilità, Yannick.»
    Gli parve che l'altro impallidisse.
    «Okay» concesse, alla fine, «Il mio silenzio per il tuo silenzio, ma stai lontano da me. Non voglio più trovarti sulla mia strada, altrimenti troverò un modo per farti eliminare.»
    Ryuji realizzò di essere al corrente di tutto ciò che voleva sapere.
    Yannick, che per quanto ne sapeva lui doveva essere in Belgio, a svolgere un banale lavoro d'ufficio, si era svelato per quello che era sempre stato: un pilota, che a quanto pareva era arrivato fino alla A+ Series.
    In più, si era tradito da solo: intimandogli di stargli lontano e di non mettersi in mezzo, si era rivelato per chi era davvero.
    «Non lo sapevo, Novantuno» lo informò.
    Yannick aggrottò le sopracciglia.
    «Cosa?»
    Non aveva negato.
    Non aveva replicato di non essere Novantuno, quindi lo era.
    «Non sapevo chi fossi» gli spiegò Ryuji. «Non ne avevo la più pallida idea. Se tu fossi stato zitto, non l'avrei mai scoperto... ma adesso lo so e farò buon uso delle mie informazioni. Siamo nella stessa situazione, quindi posso stare sulla strada di chi mi pare.»
    Yannick gli scoccò un'occhiataccia, prima di borbottare, tra i denti: «Sei uno stronzo.»
    A quel punto gli voltò le spalle e si allontanò.
    Ryuji si guardò nello specchio sopra al lavandino.
    Come aveva intuito, un rivolo di sangue gli stava gocciolando giù dal labbro inferiore.
    Il termine con il quale Yannick l'aveva definito gli fece venire da ridere. Era abituato ad affrontare scenari improbabili, ma c'era comunque qualcosa che andava oltre la sua immaginazione: non sarebbe mai riuscito a credere né che Argento Novantuno si rivelasse Yannick Leroy, il suo amico d'infanzia che da anni pareva scomparso nel nulla e che dichiarava di essersi ritirato dalle competizioni, né che Argento Novantuno potesse definire uno stronzo qualcuno all'infuori di se stesso.
    Erano successe entrambe le cose nell'arco di pochi minuti. Era più di quanto Ryuji fosse preparato ad affrontare, ma non era finita: era ancora immerso in quelle riflessioni quando Alysse fece il proprio ingresso trionfale.
    Ryuji ci tenne a precisare: «Questo è un bagno degli uomini. Il fatto che ci sia uno specchio inganna, ma rimane pur sempre un bagno degli uomini.»
    Alysse non parve preoccupata da quell'aspetto.
    «Ti devo parlare, Ryuji.»
    «Di cosa?»
    «In effetti ci sono tante cose di cui potremmo parlare e potrei chiederti anche perché Yannick ti abbia praticamente buttato a terra, ma a questo ci penseremo dopo. Adesso devo...»
    Ryuji la interruppe: «Aspetta un attimo, tu hai visto quello che è successo con Yannick?»
    «Sì. A proposito stai bene?»
    «Sì.»
    «Meno male.»
    «Parlando di cose serie, hai sentito...»
    «Quello che ho visto e sentito mi è bastato per capire che Yannick sa chi sei.»
    «Io so chi è lui, se ti può consolare» replicò Ryuji. «Tu, invece? Cosa sai? Sai chi sono? Sai chi è Yannick?»
    Alysse annuì.
    «Conosco Yannick da molto tempo, ormai. Abbiamo avuto una storia, se così si può chiamare. Non so dirti se sia finita o no. Quando mi ha baciata, qui a Melbourne, non mi sono tirata indietro.»
    «Tu e Yannick?!» esclamò Ryuji. «Mi deludi. Pensavo che avessi gusti migliori in fatto di uomini.»
    «So che è Argento Novantuno» gli confidò Alysse. «Non me l'ha detto lui. O meglio, mi ha detto di essere un pilota, ma non mi ha detto chi. L'ho capito io. L'ho messo di fronte al fatto compiuto. Non ha confermato, ma sono certa che sia Argento Novantuno.»
    «Forse dovrei dirti che una ragazza come te non dovrebbe perdere tempo con quel bastardo, ma non sarei credibile: io e Yannick eravamo amici, quando eravamo ragazzini, inoltre non so niente di te. Chissà, magari sei una stronza anche tu.»
    Alysse scosse la testa.
    «No, non sono una stronza, Trentadue-san. O almeno, non faccio la stronza con chi non se lo merita.»
    Trentadue-san.
    Solo una persona si era mai rivolta a Ryuji chiamandolo a quel modo.
    La guardò negli occhi.
    Aveva gli stessi occhi di Ventisette.
    «Ti ho riconosciuto dai capelli» gli spiegò. «Una volta ti avevo detto che ti immaginavo con le punte tinte di blu... e dopo la mia "morte" hai deciso di tingerti i capelli proprio a quel modo.»
    Ryuji fece un passo indietro.
    «Mi stai dicendo che sei Rosso Ventisette e che sei tornato dall'aldilà?»
    «Ha il suo fascino, come idea, non credi? Altro che avere un figlio che vince la Cinquecento Miglia di Indianapolis e che poi diventa campione del mondo di Formula 1.»
    «Come, scusa?»
    «Niente, lascia stare. Pensavo a Villeneuve.»
    «Non riesco a seguirti.»
    «Non c'è bisogno che tu ci riesca. Ad ogni modo sì, sono io, Ventisette. Non sono tornata dall'aldilà. Non sono mai morta. In Belgio è morto un russo che si chiamava Boris. Correva in A+ come Argento Trentanove. Sono stata costretta a prendere il suo posto. Quando mi è stato proposto ero in ospedale, immobilizzata a un letto e rischiavo di non ricevere le cure di cui avevo bisogno dopo il mio incidente. Ho provato a contattarti via social, ma non mi hai risposto. A proposito, il tuo nickname era un fake, sei giapponese come pensavo io, non cinese come ti spacciavi.»
    Ryuji replicò: «Mi pare che tu ti spacciassi per un Lord dei fanboy, non certo per una Lady. Non riesco a credere che tu mi abbia fatto credere per così tanto tempo di essere un uomo.»
    «Te ne sei convinto da solo. Io ho solo retto il gioco a te e a tutti gli altri.»
    «Non mi hai mai smentito. Per questo dico che me l’hai fatto credere.»
    «Fa differenza, per te?»
    «Sì. Ti avrei considerato come una sorella acquisita, invece che come un fratello.»
    Alysse sorrise.
    «Non cambia molto, no?»
    «No, non cambia. Piuttosto, che cosa ti è successo? Se sei sia Rosso Ventisette sia Argento Trentanove, perché non stai concludendo nulla? Non...» Le parole gli morirono in bocca, nel momento in cui si rese conto di sospettarlo. «Anche tu hai avuto un incidente, a Spa. È stato violento abbastanza da far credere senza problemi al resto del mondo che tu fossi morta, anche agli addetti ai lavori. Che cosa ti è successo?»
    «Nulla che mi impedisca di fare una vita normale.»
    «Però al volante non sei più quella di prima.»
    «Tutto si sistemerà, o almeno è quello che spero. Però non sono venuta qui per parlarti di questo... e neanche di Boris, anche se penso che non sia stato soccorso come doveva e che sia morto per questo.»
    Ryuji strabuzzò gli occhi.
    «Come?! Non posso credere che sia successa una cosa del genere. Siamo nel terzo millennio, e neanche da poco!»
    «Non è stato soccorso perché doveva morire» gli spiegò Alysse. «O meglio, Rosso Ventisette doveva morire e Boris andava bene per quello scopo. Poteva essere sostituito da me e Rosso Ventisette non sarebbe più tornato.»
    «Perché far morire Rosso Ventisette?»
    «Per la popolarità della serie. Perché non si fermano di fronte a niente. Per la dirigenza della A+ tutto è lecito. Avevi ragione tu, sul passato artefatto. Mio marito ha lavorato per loro. Doveva fare qualche comparsa in un review, nei panni di un pilota, per rendere più credibili certi risultati.»
    «Te l'ha detto lui?»
    «No, l'ho capito da sola. Mio marito è morto cinque anni fa. Era il giorno del nostro primo anniversario di matrimonio. Temo che volesse raccontarmi del suo lavoro, del perché avesse avuto un notevole aumento di stipendio, di recente. Non l'ha mai fatto. Mentre lo aspettavo, ho ricevuto una telefonata. Mi è stato riferito che si era avvelenato... ma non si è avvelenato da solo. È successa la stessa cosa, più o meno sei mesi fa, anche a una social media manager. L'ho raccontato alla madre di Boris. Mi ha promesso che cercherà di aiutarci, per onorare la memoria di suo figlio.»

    ***

    Yannick non se n'era mai andato.
    Si era nascosto, quando aveva visto Alysse dirigersi verso il bagno, e poi era sgusciato vicino alla porta.
    La confusione della sala era lontana, lì dai bagni. Non aveva sentito tutto, ma solo qualche frammento di conversazione.
    Se n'era perso gran parte, ma a quanto pareva Alysse era stata sposata con un tale che lavorava per i vertici del campionato, morto in circostanze poco chiare... e per coronare l'opera, riteneva doveroso raccontare quei dettagli della sua vita privata a Ryuji Watanabe, altresì noto come Rosso Trentadue.
    Non si poteva certo dire che Alysse non fosse una donna ricca di sorprese.
     
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    Capitolo 17
    Party in “incognito”


    Ventotto guardò l'orologio. Mancavano ancora oltre due ore all'evento che attendeva con una certa impazienza.
    Credeva di essere solo, ma qualcuno, alle sue spalle, domandò: «Che cosa aspetti così tanto ossessivamente?»
    Ventotto si girò.
    Non aveva riconosciuto la voce: grazie alla tecnologia, i piloti di seconda divisione, proprio come quelli della classe regina, parlavano tutti con lo stesso accento neutro.
    Sulla tuta e sul casco, entrambi neri, spiccava il numero di gara del suo collega, si trattava di Settantasei.
    «Niente» si affrettò a rispondere Ventotto.
    «Non sei credibile» ribatté l'altro pilota. «Quante volte hai controllato l'ora, ultimamente? Tante, mi sembra. È come se aspettassi qualcosa o qualcuno con urgenza.»
    Ventotto sospirò.
    «E va bene, aspetto quello che, con tutta probabilità, aspetti anche tu.»
    «Quindi mi stai accusando di intendere prendere parte al raduno?»
    «Sì.»
    «Sarebbe una scelta totalmente innocente» rispose Settantasei, con gli occhi che brillavano, ma con naturalezza. Per la prima volta, Ventotto realizzò che le sue iridi avevano lo stesso colore di quelle di Viola Settantasette. «In fondo a quella specie di party ci andremo tutti in incognito.»
    «Pensavo che fossimo adesso in incognito.»
    «Siamo sempre in incognito, come se vivessimo due vite diverse.»
    Ventotto si lasciò andare.
    «Sì, prenderò parte al raduno. Ho bisogno di sentirmi umano, di tanto in tanto. Non sono un robot. Nessuno di noi lo è, anche se veniamo spinti, giorno dopo giorno, a pensarlo.»
    «Siamo robot per un bene superiore» replicò Settantasei, in tono sprezzante. «La A+ Series fa tutto questo per noi... per costringerci a passare anni e anni nelle categorie minori, a meno che non abbiamo la fortuna di beccare il momento giusto per passare oltre. Lo sai che, ai miei tempi, andavo forte tanto quanto Viola Settantasette, se non di più? Eppure eccomi ancora qui, in attesa della mia chance...»
    «Mentre Viola Settantasette ha vinto tre titoli e organizza party per piloti e addetti ai lavori che, una volta tanto, vogliono andarsene in giro senza mantenere il più totale riserbo sulla sua identità.»
    Settantasei rise.
    «Una cosa del genere.»
    «Quindi, secondo te, Viola Settantasette non merita di stare dove sta?»
    «Attenzione, non ho mai detto questo. Ho detto che eravamo più o meno allo stesso livello e che era un livello da A+ Series. Con un processo di selezione più sensato, con tutta probabilità sarei arrivato nella massima categoria molti anni fa.»
    «Anche Arancione Tredici ha affermato di sentirsi deprivato di tante possibilità» osservò Ventotto. «Secondo lui, è arrivato troppo tardi, quando ormai il suo momento d'oro era passato.»
    «Arancione Tredici non ha tutti i torti. Ho gareggiato anche contro di lui. Andava forte tanto quanto Viola Settantasette. Sono certo che, se un giorno dovesse trovare la propria strada, potrebbe vincere tanto quanto il nostro attuale campione del mondo. E comunque non è detto che sia stato proprio il campione del mondo ad organizzare il raduno.»
    Ventotto precisò: «Certe voci corrono molto in fretta.»
    «Sarà meglio che non corrano» obiettò Settantasei. «Si tratta pur sempre di un incontro clandestino, di cui i piani alti non devono sapere nulla.»
    «Qualcuno si lascerà scappare di esserci andato.»
    «Appunto, ma finché racconteranno di essere stati a una festa iniziata alle sette di sera e di essere andati a letto alle dieci e mezza, nessuno avrà niente da ridire. L'importante è che, di questa festa, non venga fuori lo scopo. Anche se nessuno di noi si rivelerà per quello che è, sarà comunque pericoloso. Dobbiamo stare attenti, se non vogliamo perdere il volante e la possibilità di passare in A+ Series, un giorno.»
    Ventotto rifletté un attimo.
    Infine osservò: «Se dovessi essere radiato dalle competizioni, molta gente ne sarebbe felice. Sostengono che non merito nemmeno di essere qui, figurarsi la A+ Series.»
    «Non starli a sentire» gli suggerì Settantasei. «Che cosa vuoi che ne sappiano?»
    «Sanno anche troppo. Dicono che somiglio a Bianco Quattro e che non arriverò mai da nessuna parte.»
    «Bianco Quattro è un pilota amato e rispettato da tutti. Gli è bastato andare a sbattere e farsi vedere con una tuta che rappresentava un gufo per essere acclamato come una divinità dell'Olimpo. A nessuno importa più niente del fatto che, all'apice della sua carriera, sia sempre riuscito a farsi ridicolizzare da piloti tipo Rosso Cinquantadue, futuro signore e padrone di Indianapolis, Le Mans, Daytona e pianeti limitrofi.»
    Ventotto scherzò: «Porta rispetto a Cinquantadue. Gli è riuscito di vestirsi di rosso, non è una cosa che capita a tutti.»
    «Potrebbe capitare anche a me, oppure a te» replicò Settantasei. «E poi, al giorno d'oggi, non significa niente: il rosso è un colore come tanti altri.»
    «Su questo hai ragione, ma ha sempre il suo fascino. Si dice che Rosso Quindici lascerà la A+ Series alla fine di questa stagione. Non sai quanto mi piacerebbe essere in testa alla classifica in quel momento, per potere prendere il suo posto.»
    «Vola basso. Per il momento ci sono io, in testa alla classifica, quindi sarò io a prendere il posto di Rosso Quindici.»
    «Ci sono dei rumour anche a proposito del ritiro di Viola Settantasette» puntualizzò Ventotto. «Potresti pur sempre essere convocato per vestirti di viola.»
    «Hai ragione, a questo non avevo pensato. Comunque non sono poi così certo che Viola Settantasette voglia ritirarsi. O meglio, ne sono certo, ma potrebbe cambiare idea.»
    «Sembra che tu conosca molto bene questo Viola Settantasette.»
    «Sì.»
    «Lo sospettavo. L'ho sempre sospettato. Per caso, quando gareggiavate insieme in passato, hai scoperto chi sia davvero? E lui ha scoperto chi sei tu?»
    «A volte non c'è bisogno di scoprire nulla» sentenziò Settantasei. «Le cose si svelano da sole.»
    «C'è gente che, sul web, fa delle ipotesi a proposito di chi sia in realtà Viola Settantasette.»
    «È normale. Ci sono sicuramente anche tante persone che fanno ipotesi su di noi. Per esempio, tu porti il numero 28. Sono certo che qualcuno possa immaginarsi che tu sia il nipote di Gerhard Berger.»
    «Si sbagliano di grosso. Io e Berger non siamo parenti. E poi il mio numero mi è stato assegnato d'ufficio, un po' come succede a tutti.»
    «Vero, ma chissà che i numeri che ci vengono assegnati per caso non ci indichino davvero il nostro destino. Chissà, io che ho un numero vicino a quello di Settantasette, un giorno potrei diventare suo compagno di squadra. E tu, che sei Ventotto...»
    Settantasei si interruppe.
    Ventotto comprese cosa intendesse.
    «Potrei diventare Rosso Ventotto. Magari succedesse. Dovrei sentirne di tutti i colori sul mio conto, qualcuno racconterebbe che il mio agente ha comprato i miei risultati, in modo da manomettere la classifica della seconda divisione, o cose del genere, ma allora, se arrivassi a quel punto, non penso che me ne importerebbe. Potrei andarmene in giro a testa alta ed essere certo che, se dovessi mai vincere qualcosa, verrei acclamato come un eroe. Allora nessuno avrebbe più niente da dire, non verrei più paragonato a nessuno, né a Bianco Quattro né a nessun altro, e a nessuno importerebbe più niente di esaminare il mio curriculum per trovare la minima pecca che mi renda immeritevole di quello che ho.»
    Settantasei parve spiazzato.
    Gli servì un po' di tempo prima di replicare.
    «Mi sembri abbastanza incazzato con il mondo, ragazzo. Forse ti converrebbe darti una calmata.»
    «Solo quando il mondo si calmerà. Che cosa vogliono da me, dopotutto? Sono solo un pilota di seconda divisione. È vero, sono Ventotto, ma non per questo sto usurpando il secondo sedile della Ferrari, come qualcuno mi accusa di fare. In A+ non c'è la Ferrari. Sono passati più di diciannove anni da quando la Ferrari gareggiava nella massima serie e quella massima serie non esiste più.»
    «Credo che quella massima serie esista ancora, nei cuori di tutti. Deve essere questo il motivo per cui la A+ viene presa così sul serio.»
    «Non lo so, non ne ho idea. E comunque, su una cosa hai ragione.»
    «Su cosa?»
    «Bianco Quattro merita più rispetto di quello che gli viene riservato sui social. Se la gente lo acclama solo perché esiste, non c'è ragione per cui la gente sui social media voglia starsene fuori dal coro.»
    «Okay, adesso basta, però, con tutti questi discorsi filosofici. Vai a prepararti per il party. Non siamo robot. Lascia che a fare i robot ci pensino quelli che stanno dietro le tastiere, alle prese con i loro social di merda.»
    «Si direbbe che i social non ti piacciano.»
    «Per niente.»

    ***

    Yannick tentò di infilare il cellulare nella tasca della camicia, per poi rendersi conto che era impossibile: gli smartphone erano troppo grandi. Lo infilò in una di quelle dei pantaloni, soffermandosi ancora un attimo a pensare ad Argento Trentanove, che era in quel momento in cima ai trend mondiali.
    "E non per i risultati."
    Fino al mese precedente Argento Trentanove non si era distinto per performance particolarmente brillanti e, alla vigilia della tappa di Interlagos, ancora una volta non faceva parlare di sé per quello che faceva in pista.
    Di recente era uscita dal nulla una donna russa, sui cinquant'anni, che disponeva di un patrimonio tale da consentirle di vivere a Montecarlo. Sosteneva che il vero nome di Argento Trentanove fosse Boris abbinato a un cognome che Yannick non ricordava, che fosse suo figlio e che fosse deceduto nell'incidente di Spa Francorchamps e poi rimpiazzato da un sosia che, dovendo apparire soltanto in tuta e casco, per esserne il sosia doveva semplicemente avere occhi, statura e corporatura simili.
    Sembrava una di quelle teorie del complotto a proposito di cantanti pop deceduti in gran segreto e sostituiti da personaggi identici a loro, per andare a compensare tutti quei cantanti che invece erano morti davvero ed erano tacciati di essere vivi.
    Era possibile che il suo compagno di squadra fosse stato sostituito e che Yannick non se ne fosse accorto? Gli sarebbe piaciuto rispondere di sì, ma la verità era un'altra: di recente si era lamentato con Argento Trentanove perché parlava troppo e perché si intrometteva nei suoi affari, cosa che, in effetti, non era mai accaduta prima di Spa.
    Secondo la madre di quel Boris, a Spa era morto Argento Trentanove, non Rosso Ventisette, e quest'ultimo era colui che, dal mese di settembre, gareggiava come Argento Trentanove. Era una teoria troppo contorta per i gusti di Yannick che, da parte sua, non aveva dubbi a proposito del fatto che quella donna sarebbe presto stata messa a tacere.
    Varcò la soglia della sala, ricordandosi che Argento Trentanove e le teorie del complotto non erano la sua priorità: girava voce che quell'evento fosse stato organizzato da nientemeno che Viola Settantasette, quindi gli si presentava di fronte un'occasione unica per cercare di scoprire la sua identità e sbarazzarsi di lui.
    "Dopotutto non avranno tutti gli occhi azzurro brillante, nella A+, nei campionati limitrofi, tra piloti e addetti ai lavori."
    Era appena entrato nella sala, in cui risuonava con una tonalità sobria una melodia di samba, quando vide davanti a sé Tina Menezes.
    "Ancora lei?"
    La brasiliana non si accorse di lui: stava parlando con gente che Yannick ricordava di avere intravisto qualche volta e, da come rideva, sembrava divertirsi parecchio.
    Uno dei suoi compari era un tale dall'aria mediterranea, con una folta chioma scura, che sorrideva come un ebete, a bocca spalancata, mettendo in mostra una fila di denti perfetti, mentre ascoltava quello che un altro membro di quella gang stava raccontando.
    Quest'ultimo era un tizio dalla pelle scura, vestito in stile rapper, con i capelli raccolti in treccine dall'aria discutibile, che teneva con sé un bambino sui quattro o cinque anni che gli somigliava parecchio, probabilmente suo figlio. Infine ce n'era un ultimo, con i capelli biondi, che a giudicare dalla peluria che aveva sul mento non sapeva né usare un rasoio, né farsi crescere una barba decente.
    Quest'ultimo pareva essere l'interlocutore del presunto rapper, che dichiarava con fermezza: «I gabbiani non c'erano!»
    «Sì che c'erano!» ribatté quello con la barba poco curata. «Ce n'erano due, enormi. Se ne stavano nel bel mezzo della pista. Se avessi tirato dritto, invece di schivarli perdendo tempo, sarei stato in testa alla classifica della seconda divisione a quell'epoca, anni fa, e sarei passato in A+!»
    Quindi si trattava di un pilota di seconda divisione? Oppure di uno che fingeva di esserlo? Yannick non riusciva a spiegarsi come mai quella gente parlasse della propria carriera così come se niente fosse. Quel quartetto dava l'impressione di conoscersi. Se erano piloti, era plausibile che ciascuno fosse al corrente dell'identità dell'altro. Perché non si denunciavano a vicenda ai vertici del campionato? Yannick lo trovava inspiegabile.
    A loro, invece, doveva apparire come una cosa normale. Il presunto rapper, infatti, continuava così dal nulla a parlare di pennuti.
    «Ho sentito tante scuse ridicole, ma questa le supera tutte.»
    «Ho fatto controllare alla moviola i momenti salienti. I gabbiani c'erano.» Si chinò verso il presunto figlio del rapper. «Tu lo sai, vero? I gabbiani c'erano.»
    «L.J. era troppo piccolo, all'epoca, per notare i gabbiani» replicò il padre del bambino. «Tutto ciò che faceva era guardare la mia gara e pensare a quanto io fossi figo.»
    Quindi quel tizio aveva raccontato di sé a un bambino così piccolo, che avrebbe potuto tradirsi da un momento all'altro?
    «Sono certo anch'io che i gabbiani ci fossero» intervenne il tale dal sorriso smagliante. «È molto probabile che poi quel tizio dall'aria schizzata che correva con noi all'epoca li abbia catturati e li abbia messi allo spiedo, ma prima di incontrarlo, c'erano di sicuro!»
    «Per cortesia, taci!» intervenne Tina. «Non ho proprio voglia di sentirti parlare di gabbiani messi allo spiedo. Se quello schizzato vuole cucinare dei pennuti, non può arrostire un pollo o un tacchino? Sarebbe decisamente più normale.»
    «Concordo in pieno» convenne quello con la barba bionda. «I gabbiani sono animali molto eleganti e meritano di essere tutelati e protetti. Se ne vedeva uno di sfuggita anche nell'ultimo video di Kaksikymmentäneljä, quello in cui era sul balcone di casa sua e commentava la tappa dell'Albert Park.»
    «E chi sarebbe questo Kaksikymmentäneljä?» gli domandò Tina. «Non l'ho mai sentito nominare.»
    «Non sai cosa ti perdi. È uno che commenta gli appuntamenti della A+ Series su internet.»
    «Uno che dice le cazzate tipiche di chi non ha idea di come si guidi una monoposto, quindi.»
    «No, affatto. In confronto alla media, dice anche cose sensate. Non che sia molto difficile, perché gli altri fanno video con titoli del tipo "la top-ten dei piloti che vorrei fossero vittime di incidenti mortali" o cose del genere, ricevendo una marea di like, però in ogni caso apprezzo l'impegno.»
    Yannick passò oltre. Non gliene importava nulla di come quei tipi trascorressero il loro tempo libero e, se gradivano raccontare ad altri dei video che guardavano, che continuassero pure a nuotare nel loro brodo.
    Trovare Viola Settantasette sarebbe stato difficile tanto quanto trovare un ago in un pagliaio, ma Yannick non intendeva perdersi d'animo. Sapeva che, se voleva scoprirne qualcosa di più, avrebbe dovuto darsi da fare, invece di sperare che una soluzione al mistero cadesse giù dal cielo.
    Adocchiò una cameriera. Era piuttosto carina, quindi nessuno si sarebbe sorpreso particolarmente nel vederlo ronzarle intorno. Chissà, magari sapeva qualcosa. Doveva pur esserci un nominativo di chi aveva prenotato la sala per il party...

    ***

    Alysse vide Yannick. Stava facendo gli occhi dolci a una cameriera, senza degnarla di uno sguardo. Non era chiaro se avesse visto Alysse o meno, ma a lei non importava: rincorrere Yannick era troppo impegnativo e, in realtà, non era neanche troppo rilassante stare a contatto con lui.
    Alysse si guardò intorno e vide anche Ryuji. Stava parlando con un ragazzo con i capelli castani lunghi fino alle spalle.
    Alysse si avvicinò a loro.
    «Ehi!» esclamò Ryuji, «Lascia che ti presenti Gabriel.»
    Alysse gli tese la mano, con prontezza.
    «Alysse.»
    Mentre Gabriel gliela stringeva, vide sul suo polso destro un tatuaggio con la sigla XV.
    Spalancò gli occhi. Riconosceva quelle cifre, ma non disse nulla.
    Gabriel raccontò di essere un venticinquenne canadese, con il quale Alysse si spacciò per una PR. Lo stesso Gabriel le raccontò di svolgere un incarico simile al suo. Proprio come Alysse, mentiva.
    Attese che si allontanasse, prima di domandare a Ryuji: «Sai chi è?»
    Il giapponese annuì.
    «Eccome se lo so.»
    «E lui sa chi sei tu?»
    «Sì.»
    «Oh...» Alysse non sapeva cosa dire, ma si sforzò di trovare le parole. «Non pensi che sia pericoloso, tutto questo? Quale pensi che sia lo scopo di Viola Settantasette?»
    «Ricordarci che siamo ancora umani» rispose Ryuji. «Tu lo sei. Devi esserlo per forza. Se non lo fossi, non ti saresti messa quel vestito rosso, proprio come...»
    Alysse lo interruppe: «Non osare pronunciare quelle parole.»
    «Invece le pronuncio eccome» replicò Ryuji. «Come la vettura che guidavi, prima di essere costretta a rinunciare al tuo volante.»
    «La madre di Boris ha parlato. Lo sai, vero?»
    «Lo sanno tutti, ormai. In pochi le credono, ma...»
    «Non avrebbe dovuto tirarmi in mezzo» replicò Alysse. «Non subito, almeno. Avevamo concordato una linea di azione, ma si è lasciata prendere un po' troppo la mano.»
    «Vuole onorare la memoria di suo figlio, proprio come le hai suggerito tu.»
    Alysse annuì.
    «Lo so, ma non ero pronta. Devo scendere in pista tra appena tre giorni. Potrebbe succedermi qualsiasi cosa.»
    «Non succederà» obiettò Ryuji. «Se ti succedesse qualcosa, sarebbe la prova che la madre del vero Argento Trentanove dice la verità.»
    Ryuji non aveva torto, la sua affermazione era sensata, ma Alysse, che aveva avuto a che fare a tu per tu con il CEO, dopo l'incidente in Belgio, aveva la certezza che qualcosa sarebbe accaduto.
    Qualcosa iniziò ad accadere quella sera stessa, quando Alysse ricevette una telefonata.
    A chiamarla era un numero anonimo e il telefono su cui la stava cercando era il suo cellulare privato, ma il rapporto che aveva con il CEO era, per forza di cose, più stretto di quello che aveva con i piloti che non avevano mai dovuto inscenare la propria morte.
    Si allontanò e si diresse verso il bagno.
    Ebbe la fortuna di essere da sola: non sempre capitava, nelle toilette femminili.
    Rispose, scoprendo che si trattava proprio del CEO.
    «Buonasera, Madame Alysse.»
    «Mi dica.»
    «Dobbiamo parlare.»
    «Lo so.»
    Alysse si morse la lingua. Aveva commesso un errore madornale.
    «E come fa a saperlo?» le domandò infatti il CEO.
    Era andata meglio di quanto Alysse si aspettasse, poteva ancora salvare la situazione.
    «Se non avesse niente di importante, non mi avrebbe chiamato stasera e sul mio telefono privato.»
    «Esatto, Madame Alysse. Tra mezz'ora nella mia sede al circuito di Interlagos.»
    «Tra...» Alysse guardò l'orologio. «Mezz'ora, ha detto?»
    «Sì.»
    «Non sarebbe meglio rimandare a domani? Stavo per andare a dormire.»
    «No, dobbiamo vederci il prima possibile. È una questione di vita o di morte. Mezz'ora, non un minuto di più.»
    Riattaccò, prima che Alysse potesse controbattere.
    "Perfetto" realizzò. "Adesso non solo ho mezz'ora per raggiungerlo, e a meno di trovare un taxi subito non ce la farò mai, ma devo anche andarci in abito da sera, giusto per essere ancora meno credibile."
    Le venne da imprecare.
    Poi sferrò un calcio a una delle porte.
    A coronare l'opera, proprio in quel momento la porta dell'antibagno si aprì e una donna la colse sul fatto: era Tina Menezes, la presunta giornalista del bar di Spa Francorchamps.
    «Va tutto bene?» le chiese.
    Alysse rimase interdetta, senza spiccicare parola.
    «No» dedusse Tina Menezes, avvicinandosi. «Così, a intuito, direi che non va tutto bene.»
    «Esatto, non va tutto bene» confermò Alysse, secca, «Ma non c'è niente che tu possa fare per me. Anzi, mi stai solo facendo perdere tempo. Sempre ammesso che tu non abbia un'auto a disposizione con cui, in mezz'ora, io possa arrivare al circuito, passando prima a cambiarmi.»
    Tina la fissò per qualche istante, poi osservò: «Tutto questo non posso farlo, però posso andarci vicina. Ti porto fino al circuito e ci posso mettere anche solo venti minuti. Tuttavia non possiamo fermarci da nessuna parte. Devi venirci così.»
    «Non posso. Devo far credere di essermi messa la prima cosa che ho trovato.»
    Tina abbassò lo sguardo.
    «Una camicia e un paio di jeans, come sono vestita io adesso, potrebbero andare bene?»
    «Sì, ma a meno che tu non abbia degli abiti da prestarmi...»
    Tina la interruppe: «Vieni con me, ho già risolto il problema. In mezz'ora sarai dove devi essere. Però, in cambio del favore, spero che ti degnerai di spiegarmi che cosa ti passa per la testa... e che cosa ti passava per la testa quella volta a Spa, quando hai piantato in asso Yannick per quel pallone gonfiato di Cinquantadue.»
    Si stava già avviando fuori dal bagno, perciò Alysse la seguì.
    «Hai un'opinione troppo elevata di Yannick. Non è così tanto meglio di Cinquantadue. Anzi, al confronto con Yannick, Cinquantadue mi sembra una persona normalissima.»
     
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